sabato 24 febbraio 2007

Canto silenzioso dei danzatori giapponesi

Il battito. Il rumore. Il battito. Il rumore.
Non crollare. Fai un passo. Fermati.
Sapresti restare in equilibrio come so fare io?
Guardami. Io, da quassù, ti sto guardando. Danzo per te. Eccomi, ti vengo incontro, stendo le braccia verso di te.
La musica. Il battito. Il rumore. Il passo.
Questo è il mio linguaggio. Guardami! Volteggio sul mio asse. Nasco per questo. I miei piedi non li comando più. I piedi. Arcuati, non cercano la terra. Cercano il cielo. Cercano la sublime perfezione. Cerco di stupirti con la mia perfezione.
Volo. Salto. Danzo. Il battito, il rumore, il battito il rumore il battito.
Puoi vedere le mie gambe? Osserva! Meravigliati della mia arte. La porto da lontano per te. Attraverso i fiumi e le steppe, e le lande desolate, e i deserti dei Tartari.
E' cruciale il momento che stai per vedere. Concentrati. Voglio vedere da quassù la tua bocca spalancata e compiacermi dei miei gesti. Sto per eseguire per te qualcosa di straordinario.
Sono a cavallo del ritmo, bestia imbizzarrita, e io sono fuoco che vibra. Sono vela scossa dal fortunale e fogliame nella furiosa bufera.
Muovo lo spazio insieme al mio corpo, lo vedi come cambia, lo spazio? Come trema se io tremo, come s'alza se io mi alzo? Il tuo cuore, voglio sentirlo. Il battito, il rumore, il battito il rumore il battito il rumore del tuo sangue che monta in su per l'emozione.
Ecco.
I riflettori si spengono. Le luci s'abbassano. Poi è di nuovo luce e io sono qui senza nessuno.
Ora tu puoi comandare, ora tu puoi giudicare. Ti è piaciuto ciò che hai visto? Ti sorriderò, mi inchinerò, implorando le tue mani affinché scroscino come i mille ruscelli che risuonano nel bosco taciturno. Tu puoi rendermi felice, fallo. Tu puoi farmi andare avanti, sospingimi verso l'Olimpo.
Ti sento, percepisco ogni tuo senso.
Fammi bere dalla fonte, fammi tornare sopra il palco.
Lasciami annegare tra gli applausi del tuo piacere.
E la riverenza sarà linfa per i miei arti stanchi e i miei muscoli cocenti.

(Ispirato dallo spettacolo di danza contemporanea giapponese, spazio M.I.L., Sesto San Giovanni, 22.02.07)

mercoledì 21 febbraio 2007

Per me che ho gettato via le maschere

Non è una farsa, non è una burla, né una bizzarra messinscena. Non sono di plastica, o ferro, o cera le maschere vere. Quelle quotidiane. Sono fatte di occhi vivi, pelle vibrante, denti che spuntano a forza in un sorriso di circostanza, celando spudoratamente un accurato disappunto, cesellato a regola d'arte in fondo ai pensieri, ma che troppe volte non può tornare a galla.
E' curioso il mio rapporto con le maschere. Dovrebbero evocare la spensieratezza del Carnevale, lo scherzo, il lazzo più divertente. Invece quando le vedo, le tocco, mi si smuove dentro qualcosa di amaro che appartiene al passato.
Il mio stesso viso è stato mille maschere tutte insieme. Ognuno vi poneva l'espressione che voleva vedere. In questo senso, la mia capacità di accontentare gli altri è sempre stata magistrale. Costantemente accomodante, mai in conflitto con l'interlocutore; guardami, sembravo dire, puoi cercare nei miei occhi, nelle mie labbra, le conferme di cui hai tanto bisogno. Vedi il fuoco nel mio sguardo perché hai bisogno di alimentare la tua rabbia. Cerchi la tristezza perché hai bisogno di compassione. Trovi la malizia perché hai bisogno di giustificare le tue voglie.
Finché, un bel giorno, ho pensato che era il caso di riporre questo gioco macabro e clandestino in fondo al bidone dei rifiuti. Sputando su me stesso, sull'assenza del desiderio di essere me stesso senza dover necessariamente trovarmi in accordo con chi si rivolgeva a me. Finalmente capace di dire "sì" o "no" quando lo volevo io. Tutti coloro che si erano abituati a scorgere in me solo quello che avevano necessità di vedere sono rimasti esterrefatti. Improvvisamente non ero più io, e invece ero proprio io. Non la maschera. Io, non quell'espressione contrita cui mi forzavo per sembrare una persona migliore, la persona che tutti volevano vedere e che tutti credevano di conoscere. Ho spezzato la catena, ho rotto l'incantesimo. Ho spalancato le ali e sono volato via dalla gabbia che mi avevano costruito intorno.
Com'è difficile essere se stessi. E quant'è duro riuscire a riguadagnare la propria, vera personalità, sopita sotto menzogne sedimentarie, addormentata dalla paura del pregiudizio, schiacciata sotto il peso del buoncostume. Ma ce l'ho fatta e ne vado orgoglioso. Orgoglioso di poter dire vaffanculo a chi è rimasto deluso, a chi ha detto che ero cambiato (in peggio).
Oggi, per un bizzarro scherzo del destino, riprendo in mano le maschere e finisco sempre per divertirmi. Indossarle mi fa pensare che, finalmente, sto coprendo la mia autenticità. E mi comporto in modo grottesco, mi lascio guidare da lei e faccio ciò che vuole; ne seguo il dinamismo; scelgo con una cura, a metà tra il sollazzo e la meticolosità, il movimento più adatto ad assecondarne il ruolo. Poi, la sfilo lentamente. Inspiro, libero, la tengo tra le mani per sentirne la consistenza di quella cartapesta che ha il profumo dei vecchi bauli. E mi rendo conto che è stato un gioco. E che il mio volto, una volta scoperto, continua a parlare di me.

giovedì 15 febbraio 2007

Each Day Is Valentine's Day

Mi domando perché, in molti casi, gli innamorati aspettino con tanta fibrillazione il giorno di San Valentino. In fondo non è che una data come le altre. E in una certa misura trovo che sia una festa piuttosto discriminatoria. Come se chi non potesse festeggiarla fosse inevitabilmente escluso dal mondo per ventiquattr'ore. Come se fosse meglio che costoro si chiudessero tra quattro mura in attesa del giorno successivo, per non rovinare il giubilo di coppiette abbracciate.
Il giorno di San Valentino è di color rosso acceso, ha il sapore del cioccolato e il profumo dei boccioli di rosa rossa. Si lascia aspettare e si manifesta dalle vetrine dei negozi, esposto in forme di cuoricini palpitanti e pupazzi di animali recanti messaggi d'amore tra le zampette. Per il centro, sul selciato, centinaia di volantini di offerte speciali per romantiche cenette a lume di candela, accartocciati e calpestati dalla folla che si arrabatta per trovare un regalo ad ogni costo.
Il giorno di San Valentino taglia il mondo a metà. Da una parte le risate cristalline, gli occhi di triglia, le mani intrecciate, dolci paroline sussurrate nell'orecchio dell'amante. Dall'altra gli sguardi malinconici che precipitano per terra, quando vedono i negozi sfavillanti, quando ascoltano l'euforia degli innamorati per i programmi della serata; sono gli stessi sguardi che cercano di eludere, ma invano, i pacchetti proposti ai fidanzatini dalle agenzie di viaggio, per un paio di giorni a Praga o a Parigi, lontano dal solito mondo, per essere più vicini ad un mondo che possa realizzare il loro amore nella sua pienezza.
Non ho sentito la pressione di dover trascorrere un giorno di San Valentino assolutamente perfetto, perché da quando sono insieme a te, per me è San Valentino tutti i giorni. Non ho sentito il bisogno di farmi bello per essere più appetibile per il dopocena. Non ho sentito il bisogno di programmare alcunché, ho aspettato che arrivassi dal tuo paesino con la tua macchina e abbiamo deciso all'istante per un cinese d'asporto, innaffiato da un Martini brut che ci stava come un cavolo a merenda, improponibile. Ma è bastata una bottiglia per farci ridere a più non posso, per farmi disorientare nell'ebbrezza, per farci allusioni reciproche, spinte, sconce, ridicole, piccanti. Abbiamo parlato, abbiamo giocato. Abbiamo fatto l'amore e così ci siamo persi ancora una volta in quel magico mondo che abbiamo già esplorato insieme tante volte, ma che ogni volta è nuovo e diverso. Carico di colori, sapori, odori, emozioni, differenti e sensazionali. Accompagnati da musica americana anni '80 che ritmava i nostri amplessi scatenati. Ed è stato fuoco, e fiamme, e poi vento e tempesta, un uragano d'amore che è volato via dalla mia finestra, tra le incessanti gocce di pioggia, gridando al mondo intero che non ci interessava che fosse San Valentino; perché è questo il nostro vivere la vita quotidiano, la nostra esperienza unica e inimitabile, un modo di amarci solo nostro, tutto nostro, che suona la sua dolce melodia soltanto per noi per cullarci, quando, stanchi ed affaticati, resteremo abbracciati a dormire sotto le stelle d'argento.

venerdì 9 febbraio 2007

Non ci riuscirò

A volte mi manca il respiro, mentre ti guardo. Ti divoro con gli occhi per cogliere ogni tuo minimo sussulto, ogni impercettibile vibrazione del tuo corpo. Curiosamente mi sembra di poter cogliere il battito irregolare del tuo cuore anche se non tengo la testa poggiata sul tuo petto.
Se non ci sei, immagino le tue mani che mi sfiorano e tue labbra che percorrono i sentieri del mio ventre. Ed inizio a contorcermi come in un sogno, perdo la cognizione della realtà. Diciamo pure che sai come prendermi. Sai dove colpire, sai dove farmi ridere, dove farmi impazzire.
Di tanto in tanto, mi sveglio di notte e mi accorgo di averti accanto. E così mi fermo a guardarti mentre dormi. Sei così tenero ed indifeso. Nel silenzio onirico percepisco la tua risata cristallina e vedo un immaginario chiaro di luna che si poggia sulla tua pelle bianca. Non mi sembra vero che sei così vicino, quasi mi commuovo. Vorrei abbracciarti, ma ho paura di destarti dai tuoi sogni. Così mi corico più vicino che posso di fianco a te, e mi contento di accarezzarti piano, pianissimo. Per non svegliarti. Per lasciarti vivere in quel momento così inarrivabile, supremo, per tenere stretta quell'immagine di te che riposi nella mia testa.
Sono innamorato di te. Ed ho paura. Scioccamente. In fondo so bene che potrei vivere senza di te, e tu senza me. Ci piace la nostra libertà, vogliamo entrambi avere i nostri spazi. Ed è giusto così. Ma ho un'incommensurabile paura di perderti. Perché poi, non lo so. Ogni tanto questo pensiero mi angustia. Se penso a tutto quello che mi dai e che, d'improvviso, potrei non avere più, mi sento perso. Smarrito come un bambino in mezzo ad una folla di facce estranee. E solo. L'altra notte ho fatto un incubo. Nel sogno perdevi la vita, guidando la tua automobile, precipitando in un lago; e il lago ti inghiottiva, ti portava lontano da me per sempre. Te, che sei nella mia vita da così poco; e anche se non voglio ammetterlo, perché mi farebbe sentire debole, sei già diventato indispensabile.
E' stato un periodo difficile da superare; tu mi sei rimasto accanto in modo discreto e fondamentale. Mi hai donato la serenità necessaria per affrontare a testa alta le ultime settimane, e ne sono uscito perfino rinvigorito. Parte del merito spetta a te. Ora che i ruoli si sono invertiti, sono felice di poterti restituire l'appoggio che tu mi hai dato. In ogni modo, con una parola o due, con una carezza, facendomi l'amore sino a farmi gridare, sino a farmi dimenticare del mondo che infuriava là fuori. Nessun problema amore mio, siamo solo io e te, viviamo fino in fondo e scordiamoci degli altri, di tutto il resto...
Domani sera ti vedrò.
Mi sento come un adolescente al primo appuntamento, alla prima cotta. Mi guardo allo specchio e mi brillano gli occhi, pieni d'energia, vivaci come non lo sono stati mai. Voglio passare un'altra notte indimenticabile intrecciando le mie gambe con le tue. A dirci sciocchezze, a ridere, a bere un bicchiere di vino e guardarci stralunati. Voglio farti contorcere dalle risate facendo lo scemo, facendo solo per te il solito teatrino. Voglio baciarti dovunque.
Il mio cuore ha cominciato a battere in modo strano. Io so il perché. So quando si comporta così. Comincia a vibrare impazzito sotto la maglietta, e intanto il mio corpo si inarca dai brividi che lo percorrono in ogni direzione. Ma la lingua, maledetta, mi si blocca. Si bloccherà anche domani sera, già lo so. Quando saremo stretti stretti, sdraiati sul piumone a coccolarci. Verrà quel momento magico, mentre staremo facendo l'amore, e dopo averlo fatto, mentre fumeremo una sigaretta, fissandoci stralunati, entusiasmati, le membra intorpidite, le guance arrossate, la fronte ancora madida. E ancora una volta non riuscirò a dirtelo. Che ti amo, maledizione.

lunedì 5 febbraio 2007

Pro Discipulis

Per ora è chiusa. Non dico serrata, anzi sembrerebbe, a prima vista, appena dischiusa. Ma solo io ho idea di quanto vorrei spalancarla e urlare fino allo sfinimento. Gridare fino a lacerare le mie corde vocali già deturpate dal fumo di sigaretta che, in questi giorni, sta tramutando i miei polmoni in merda. Peccato che in condominio sia tassativamente vietato provocare schiamazzi notturni.
Vorrei gridare la mia stanchezza. Sono affaticato come non mai; forse, per la prima volta nella mia vita, ho preso coscienza di cosa sia lo sfinimento fisico e mentale. E ho iniziato a capire quanto sia bello poter oziare, sentirsi felicemente fannullone, trascorrere un'intera giornata dedicandosi allo svago più puro, come quando era estate e finiva l'anno scolastico. Via i libri, via i pantaloni lunghi che dovevamo indossare per non suscitare reazioni conservatrici negli insegnanti. Via la sveglia presto.
Impossibile, in questo periodo così infittito di impegni, non pensare ai mesi caldi. Al primo giorno passato a rivoltarsi beatamente tra le lenzuola madide di sudore, per via dell'eccessivo caldo; ma non importava, perché prima, quelle lenzuola, non avevano nemmeno il tempo di inzupparsi. Le immagini del mare, della sabbia cocente, dei racchettoni utilizzati fino a procurare calli sulla mano, anzi, più bozzi che calli: e l'acqua salata che lenisce il dolore, ma lo acuisce al tempo stesso mentre disinfetta la piaga. Mai avevo pensato a quanta dolcezza potessero procurare in un momento come questo, e quanta nostalgia mi potessero infondere.
Quest'inverno ancora piuttosto latente, più simile ad un abbozzo di primavera che ad una stagione di gelo e freddo pungente, mi schiude i portoni dell'immaginazione e me li sbatte sui denti in maniera beffarda e quasi oltraggiosa. Che affronto! La fantasia mi tradisce sul più bello, e non serve che un attimo per riprendermi dalla batosta; subito le sudate carte mi fanno l'occhiolino, come per invitarmi a sfogliarle. A stritolarmi il cervello per cercare di cogliere il senso più recondito delle loro parole. Perché chi può permettersi l'otium dall'alto delle loro poltrone, sono i grandi letterati, gli eccelsi critici, i rispettabili filologi. Unti e repleti nei loro completi eleganti, dettano legge sull'interpretazione e sulle metodologie da applicare in caso di "tradizioni pluritestimoniali". Usano espressioni altisonanti, questi azzeccagarbugli dei nostri tempi, incollati al latinismo più sfrenato, per rendermi lo studio ancor più complesso, per sentirsi superiori, loro; loro, a cui basta uno schiocco della lingua per vituperare l'ignoranza di chi legge i loro testi. Sfrontati conservatori degli insegnamenti ottocenteschi, curiose cariatidi aggrappate a capitelli di gesso ormai corroso dallo sterco dei più infimi uccelli del malaugurio. E hanno il coraggio di professarsi sapienti e dottori, straordinari insegnanti: eppure io credevo che un buon insegnante fosse quello capace di trasmettere la sua lezione con ingegno e vivacità, di imprimere il suo sapere in un uomo con la facilità con cui un francobollo leccato sul retro si attacca ad una busta.
Tutti nasciamo come contenitori fondamentalmente vuoti. Eppure, voialtri detentori della conoscenza, accademici decorati, non ci riuscite. Palesando il mio totale disappunto, non mi resta che affidarmi alla passione e radicarmi ad essa con tutte le mie forze, coltivando la speranza di riuscire a conoscere anch'io, di avere anch'io un'autorità, un giorno, e di poter finalmente confutare le vostre vacue, eppure apparentemente irreprensibili, parole.
E intanto domani c'è l'esame.
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