lunedì 23 aprile 2007

Eppure Sentire

La notte non è silenziosa, questa sera. So già che non dormirò bene, o forse non dormirò affatto. Ma la colpa non è dell'esame di domani, né del traffico, né dei tifosi che, nonostante l'ora tarda, continuano a sfrecciare per le strade a bordo delle loro rumorose automobili, gridando la propria gioia, incontenibile. Io invece sono qua da solo, nelle quattro mura della mia stanza, a riflettere e a rimuginare su me stesso, come al solito. E mi domando perché io abbia bisogno di scrivere per capirmi, per cercare una risposta a questa nebbia che mi lascia perplesso. Dov'è la luce in fondo al tunnel? Solo qualche tempo fa mi interrogavo sulle mie radici disperse laggiù, in quella terra popolata ma desolata al tempo stesso, un deserto in cui mi ritrovo, talvolta spaesato, sempre più spesso assetato, desideroso di trovare quella piccola oasi in cui trovare ristoro e tranquillità. E da quel momento, un giorno dopo l'altro, si sono accavallate sempre più sensazioni contrastanti. Vivo attimi di felicità alternati a momenti di insospettabile malinconia. Chi mi sta vicino se n'è accorto, ma non riesce a spiegarsi il perché, e mi domanda cos'abbia, quando mi perdo con lo sguardo sul soffitto della mia camera, come se un punto interrogativo attraversasse il mio volto e vi lasciasse un segno indelebile. Ma è davvero malinconia?
Ho cercato tra le mie cose, tra i miei ricordi, ho sperato che qualche sogno riaffiorasse ai miei occhi, cosicché un bel mattino potessi svegliarmi e dare una risposta definitiva a questo stato d'animo d'incomparabile sterilità. Mi fermo a guardarmi intorno, dietro, nel passato, vedo migliaia di immagini, poi guardo davanti, e capisco che il problema è tutto lì. Quel maledetto davanti, il futuro, l'avvenire, non riesco a vedere me stesso in una proiezione stabile e definita tra cinque, dieci, vent'anni. Cosa farò? Chi sarà al mio fianco? Come sarà la mia vita? Ma soprattutto: come posso lasciarmi intimorire da qualcosa che non c'è? Non lo so, eppure è così, e non posso farci nulla. Almeno, non adesso. Vorrei solo dare un colpo di spugna a questa lavagna che riecheggia bianco su nero tutte le mie perplessità e le mie paure. Vorrei essere più forte per guardarla, e per saper affrontare a testa alta i mille problemi che immagino ci saranno un domani. Vorrei essere me stesso senza paura di esserlo. Vorrei poter dominare questa tempesta che mi spacca a metà e che mi divide tra gioie intense ed insopportabili cortine di tristezza. Non pensavo che, anche adesso, la solitudine potesse farmi così male, ora che riesco a riordinare qualche tassello della mia vita. Mi sembra che ci siano delle faccende in sospeso che non mi permettono di riposare, ma non so quali siano. Mi sembra che una cricca di fantasmi mi perseguiti alle spalle, che si diverta ad impreziosire i miei sospetti, già ampiamente rimarcati, di mancata riuscita in tutto quello che cerco di fare. Vorrei solo starmene in pace, ma è una pace che agogno e che sembra non arrivare mai definitivamente. Questa maledetta tranquillità è una puttana, si lascia pagare per qualche ora di sollievo al prezzo dell'oblio, un prezzo troppo alto e che non so se sono più disposto a sborsare. Perché non si innamora di me? Perché non mi stringe a sé con forza, con voluttà, col desiderio di legarsi a me per sempre? Ma non riesco ad abbandonarmi alla dimenticanza, continuo ad annaspare anche nel mare grosso. Io resto il solito cavaliere errante, macchiato di mille paure, ma sempre in sella, vagando nel buio più nero, di lanterne non v'è traccia, ma io cerco l'alba, io cerco la luce del giorno...

venerdì 13 aprile 2007

La Casa, dov'è?

E' trascorsa una settimana da quando, carico di valigie e scartoffie da studiare, sono salito su quel treno che mi riportava nella mia città natale, per la Pasqua. Cinque ore di viaggio, passate rapidamente e con riflessioni abbarbicate l'una sull'altra come fili di edera. Sentivo qualcosa di diverso nell'imboccare quel tragitto verso il Sud, una strana trepidazione che mi faceva scalpitare il cuore. Ma, al tempo stesso, provavo uno strano timore. Ogni volta che mi accingo a tornare ai miei lidi, ho paura di restarne sempre più deluso. Di non riuscire a resistere alla tentazione di riprendere il primo treno per Milano e scappare via per sempre, per non rimettere mai più piede su quelle strade che mi hanno visto correre e correre, muto, sofferente.
Eppure, alla discesa dal nuovissimo EurostarAV, l'aria sembrava accogliermi benevola. Una brezza dolce e non troppo fredda mi aveva scompigliato questa stravagante frangetta che ormai mi fa compagnia da un paio di settimane. Lo sguardo felice di mio padre che mi accoglieva in fondo alle scale, sebbene a prima vista non mi avesse riconosciuto. Colpa della frangetta, ho pensato io sorridendo. E poi i giorni si sono susseguiti lenti. Indolenti. Strazianti. Nonostante il fatidico pranzo pasquale con tutta la famiglia, che mi spaventa più di ogni altra cosa ogni volta, che mi fa temere di poter esplodere da un momento all'altro, di passare dalla placidità più assoluta alla più furibonda delle reazioni, non fosse stato così tremendo. Ho rivisto gli amici più stretti, confessando loro, giorno dopo giorno, la mia angustia e la mia brama di fuggire da lì. Loro sembravano comprensivi. Ma forse non potevano capire del tutto. Convinti che fosse l'amore che ho qui, che fossero le mille opportunità di Milano ad attirarmi come fa una calamita con la limatura di ferro. Ho cercato di convincermi che avessero ragione, annuendo pensieroso e meditabondo, dicendo loro sì, è vero.
Allora sono andato al mare. Era la prova del nove. Era un pomeriggio piuttosto freddo, il solito clima altalenante ed umido aveva scalzato il caldo improvviso dei primi giorni. Mi sono sfilato le la camicia a quadri blu, le scarpe ed i calzini, ed ho arrotolato i jeans fino alle ginocchia. Volevo sentire l'alito delle onde venirmi addosso come una tempesta, volevo sentire l'aria salmastra e l'odore del sale sulla mia pelle, volevo sentire l'acqua cozzarmi sui piedi. Sono rimasto alcuni minuti con i piedi immersi nel mare ancora gelido, ancora acerbo per un bagno in costume, aspettando qualcosa, una sensazione di piacere, un brivido dentro le ossa. Niente. In quel momento ho capito che avevo tagliato definitivamente il cordone ombelicale con quel mare, con quella spiaggia, con quelle colline in lontananza. E mi sono sentito spaesato, perso, privato delle mie radici più profonde, un albero strappato alla sua terra da un uragano furente ed impietoso.
Ho vissuto gli ultimi giorni con un groppone in mezzo al petto. Finché non è arrivato il momento di ritornare verso il Nord, a cinquecento chilometri di distanza. Mi sembrava di essere all'inferno: il calore delle due del pomeriggio divampava nell'aria asfissiante, un vento bollente mi ha seccato le labbra. Con gli occhi strabuzzati e il cuore al cardiopalmo sono salito in treno, le porte si sono chiuse, ho avuto mille sussulti. Stavo ripartendo. E il mio battito cardiaco ha cominciato a rallentare, a placarsi, le mie tempie avevano smesso di pulsare ossessivamente. Il respiro era tornato regolare, sedato a poco a poco, tanto più aumentava la lontananza da quella geografia che ho compreso non appartenermi più. Come se nella mia esistenza quel pezzo di litorale fosse stato stracciato come la pagina di un libro ingiallito dal tempo, e via, sempre più veloce verso il mio rifugio remoto e segregato dal resto. Seduto nella mia poltrona, col sudore divenuto freddo sulla mia schiena, incollato ai miei vestiti, mi sono sentito un clochard che, per l'ennesima volta, intraprendeva un viaggio alla ricerca di se stesso. Lo sguardo del vagabondo che era in me si perdeva nei paesaggi frettolosi che scorrevano fuori dai finestrini, interrogativo, ammutolito. E si chiedeva dove fosse, adesso, la sua casa.
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