mercoledì 31 ottobre 2007

Quando non sai cosa fare

Sono appena tornato a casa. Una serata ordinaria e senza pretese, il corpo sfiancato da acrobazie e da un'estenuante seduta di palestra. Fuori piove, o meglio l'intuisco dal rumore. Una cieca e fitta, continua, instancabile puntellatura si abbatte sull'impenitente impalcatura, che da tempo è di stanza ormai dinanzi alle mie finestre; e così fino a primavera. Il ticchettìo regolare delle gocce sulle fredde sbarre di ferro non lascia presagire altro che una notte di pioggia incessante e di freddo, quello umido che si conficca tra l'osso e la carne.
Accendo il computer e la televisione contemporaneamente, ho bisogno di creare suoni, risate, voci per riempire la mia camera impregnata di fumo. Il pavimento è pieno di polvere di calcinacci, specialmente sotto il calorifero imbrunito dalla ruggine. Una densa coltre di bianchi granelli si è adagiata persino tra le piccole scanalature realizzate sugli infissi delle finestre.
Mi sintonizzo sulle frequenze di una web radio, su cui trasmettono questa sera due miei compagni di avventura. Ascolto la musica, le cover scelte dal mio pazzo amico, e gli intermezzi pubblicitari rivisitati in chiave vagamente erotico-sadomasochista. Grandi! penso, mentre cerco di non sputare dappertutto, per il troppo ridere, la mia zuppa color arancione. Mangiare con vero buonumore è stato un fattore di non trascurabili ilarità e piacevolezza. Mandar giù il boccone mentre, lontano, due voci amiche raccontano stronzate. Bello! Intanto la zuppa è finita, anzi ne ho divorati due piatti.
Resto al telefono per un'oretta buona col mio fidanzato. Sentire la sua parlata settentrionale mi rilassa perché adoro pensare che siamo, in una certa misura, una coppia un po' internazionale. Sì, lo ammetto, vivendo in Lombardia ho cominciato a distinguere tra milanesi e terroni... Parliamo di tutto e di più. Altra cosa che gradisco estremamente: spaziare, raccontare, bisbigliare paroline melense, dire parolacce e frasi sboccate, fare l'imitazione di una persona che ci fa ridere un sacco. Spettegolare, anche, perché, sotto sotto, siamo tutti e due un po' comari, sebbene non vogliamo ammetterlo. Ma tant'è. Riattacco la cornetta col solito sorriso accavallato tra l'estatico e il malinconico; il telefono mi suggerisce sempre una lontananza con cui fatico a convivere serenamente.
Sulla scrivania, maliardi, mi guardano di sottecchi tre dei miei vizi preferiti. Una bottiglia di Montepulciano, un piccolo tocco di fumo ed un libro di letteratura latina. Nella fattispecie una raccolta dei Carmina di Catullo. Nella mia testa dev'essersi originata una nebulosa, come quella che preannuncia la nascita di un'esplosione siderale. Ho visto i tre vizi mescolarsi assieme, come una pasta filata, un brodo primordiale da cui non sapevo cosa sarebbe venuto fuori. Così ho iniziato a tradurre. Ed ecco cosa ne è venuto fuori.

Ti leccherai i baffi a cena da me, Fabullo mio,
mancano pochi giorni, sempre che gli dèi siano propizi,
se ti porterai appresso una cena ottima e abbondante,
e non dimenticarti pure una bella ragazza
oh! e il vino, il sale e un bel po' di grasse risate!
Fidati di me, se non dimenticherai nulla, bello mio,
farai una grande abbuffata: al momento il portafogli
del tuo Catullino si è riempito di ragnatele.
Però, in compenso, ci guadagnerai il mio affetto sincero,
e tutto ciò che è più godurioso e raffinato:
adesso ti offrirò un unguento, che Venere e Cupido
dettero in dono alla mia fanciulla,
e una volta che l'avrai annusato per bene, implorerai gli dei
che ti facciano tutto naso, Fabullo!
Mando giù un sorso di vino e penso che mi sarebbe piaciuto un sacco passare una serata con Catullo. Ed ho già in mente cosa gli avrei portato: parmigiana di melanzane e Primitivo di Manduria.

domenica 21 ottobre 2007

Sintetizziamo

Ci pensavo proprio oggi, scoprendo peraltro che compiere certe mansioni casalinghe sotto effetto di fumi illeciti(o quasi) può avere effetti collaterali; è pertanto sconsigliato l'uso di suddetti fumi.
"Ma ci pensi?", mi ripetevo, mentre lustravo con meticolosa, certosina pazienza la tazza del cesso di casa.
Nota bene: vivo con due donne che hanno una concezione diametralmente opposta a proposito dell'astratto concetto di "pulizia". L'una sostiene che il bagno andrebbe pulito almeno due o tre volte a settimana: inevitabile, per me, dare olio di gomito come un forsennato persino sulla tavoletta dei tempi del Carlo Cotenna, per non sentire il senso di colpa. L'altra, invece, a causa di una probabile disfunzione di alcune cellule cerebrali, subisce notevoli alterazioni a livello di calcolo dei giorni: per lei, una settimana equivale a 14 giorni, indi per cui si concede di fare le pulizie una volta ogni tanto, così, per "svago". Di qui l'aumento dell'attrito che impongo alla spugna a seguito di convulsioni di incazzatio occipitalis.
Ebbene, dicevo, stavo pulendo la tazza del cesso, col culo quasi per terra, ed io sciolto in manifeste effusioni amorose con la tavoletta. Quando ho pensato: la tazza del cesso. Dove finiscono gli escrementi dell'uomo. Ma dove anche finisce altro. Sogni, ambizioni, aspirazioni. Amori, amicizie. Fiducia nel futuro. Momenti di tranquillità.
Un colpo allo scarico, e via. Nelle fogne. A marcire con gli escrementi degli altri. A galleggiare, come stronzi sodi e tondi, verso l'ignoto.
Con la testa all'altezza del bordo, con gli occhi scrutando sul fondo del water, sto raschiando la ceramica interna a mo' di pelle d'orso. Intanto Ella Fitzgerald, duettando con Louis Armstrong, dice:
"Heaven, I'm in heaven
and my heart beats so that I can hardly speak
and I seem to find the happiness I seek
when we're out together dancing cheek to cheek"
"Fanculo!"
Essere nella merda fino al collo, dover mangiare merda, merda-merda-merda!, sei una merda, faccia di merda, sguazzare nella propria merda. E tutta la merda sparisce lontano da casa, lasciando solamente la sua puzza dietro di sé, un ricordo che sa di minaccia: "Tornerò", sembra dire, mentre sparisce tra i tranquillizzanti gorghi delle acque reflue. Pensiamo che non ritornerà, ma quell'odore, quella puzza nauseabonda, lascia presagire che ci stiamo sbagliando. Lei tornerà, di volta in volta, quando meno ce l'aspettiamo, e ci costringerà a sederci, a fermarci, perché è troppa e lei è più forte di noi. Un'enorme montagna di merda che deve interrompere sempre nel momento meno opportuno.
Tutti gli sforzi in cui ci produciamo per raggiungere qualcosa di inafferrabile è pari allo sforzo profuso quando, in preda a convulsioni di non pervenuta natura, ci contorciamo sopra la tazza, coi talloni appoggiati sulla conca e le braghe calate sui piedi, sfogliando un giornale scandalistico o l'ultimo catalogo dell'IKEA, in attesa del tozzo. Meno ci si impegna, minore sarà il risultato. Ma alla fine il risultato pur sempre merda è. Quando arriva, quando è "'mpizz 'mpizz", come si dice dalle mie parti, pensiamo di avercela fatta, sì, finalmente. E ci adagiamo sugli allori. Segue il rumore del sasso che cade nello stagno(scusate la perifrasi metaforica, ma dovrete convenire con me che il suono è proprio uguale!), dicevo, nello stagno, e con una di quelle sensazioni a cavallo tra il perplesso, il preoccupato e l'insoddisfazione, constatiamo che il tozzo è proprio di dimensioni irrisorie. Ci sforziamo di più per tentare di ottenere un bottino meno magro, ecco, e invece niente! Il niente! E questo ci metterà in crisi per tutta la giornata. Incazzati col mondo intero, sempre col pensiero fisso lì, a quel maledetto pezzetto di cacca che sembrava più una presa per il culo che una mera esistenza escretiva.
E ora Ella canta, stavolta in assolo:
"Is your figure less than Greek?
Is your mouth a little weak?
When you open it to speak,
are you smart?
But don't change a hair for me
not if you care for me
stay, little Valentine, stay..."
Sono allibito dalla mia visione pessimistica. Forse le cose non stanno davvero così, no, forse il mondo non è tutta una merda, e non tutti i nostri sforzi finiranno nel WC come la cacca. No, forse qualcosa si può fare.
Il 22 ottobre è il compleanno dell'Amica storica.
Per regalo, ho scattato una fotografia del mio cesso e l'ho stampata. Ho comprato una cornice per contenerla, e insieme un flacone di prodotto disincrostante e uno spazzolone color rubino, col manico semitrasparente e i fiori fluttuanti all'interno. Potrei anche scriverle una dedica:
"Affinché tutta la merda che c'è in questo mondo
non ti cada mai in testa
e nel caso in cui questo dovesse succedere
almeno avrai le armi adeguate per combatterla!"
E scacciarla via. Lontano lontano. Dove?
Che domanda. C'è ovviamente Ella a suggerirmelo, e piano mi sussurra:
"...somewhere over the rainbow..."

giovedì 11 ottobre 2007

Come Medea

La quiete è una caratteristica che raramente ho potuto riscontrare nel corso della mia ancorché breve vita. Costantemente abbarbicato in maniera precaria alla funambolica sequela interminabile di impegni quotidiani, mi risulta difficile persino godere di questi pochi giorni di riposo che mi sono concesso dopo le ultime, titaniche fatiche universitarie. Figuriamoci, ultimamente ho difficoltà ad assaporare l'essenza delle vacanze estive, non mi stupisco più.

Ho indubbiamente scelto una strada difficile.

"Hai voluto la bicicletta, e adesso pedala". Quanto odio questa frase! La detesto perché cade come una ghigliottina da pulpiti infarciti di buoni propositi e poca sostanza concreta. D'altronde, però, mi stimola a dimostrare che valgo molto più di quanto non riesca già a dimostrare.

Corsa contro gli altri o contro me stesso? Bel dilemma.
Due strade incerte.
Ma io sono testardo, come Medea.
Medea sapeva che, abbandonando la natìa Colchide, avrebbe imboccato un cammino poco sicuro. Ma aveva le sue motivazioni.
Medea giunse a Corinto, ostracizzata come strega, tenuta d'occhio dagli arrivisti e dai funzionari, pronti a registrare il suo primo passo falso. Ma lei incedeva, noncurante dello sguardo altrui, noncurante della tradizione vigente a Corinto. Gioielli vistosi e chiome sciolte, passo felpato e veloce per le strade della città.
Due strade per me.
Due passioni che convivono e mi costringono ad una corsa contro il tempo.
Le lettere, mancano nove esami al termine dei primi tre anni(ma, in fondo, ce ne saranno dei secondi?), la passione sfrenata per la filologia, inimmaginata, sorprendente oserei dire. Le lettere, un richiamo.
Il teatro, una vocazione. Fin da piccolo. Illusione, desiderio, ybris? Dove mi porterà tutto questo? So solo che, quando resto da solo, nella mia stanza, sdraiato sul mio letto, immagino sempre il momento prima di calcare le scene e il mio cuore incomincia a battere all'impazzata, senza più riguardo per la mia inconcludente razionalità. Realizzare qualcosa e averne il controllo, la mia piccola visione utopistica del mondo.
Di notte sogno prestazioni incredibili di cui fatico persino a riconoscermi come protagonista assoluto. Immagino me stesso volare da un lato all'altro del palcoscenico, buttando fuori tutta l'energia che ho in corpo, godendo della forza che potrebbe sommergere gli spettatori. Chi sono io?
In alcuni momenti ho la sensazione che, durante quest'anno, perpetrerò una violenza inaudita sul mio corpo. Non so nemmeno se ho tutta la forza necessaria per raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissato: proprio io che eludo le scadenze meglio di quanto potrebbe fare un debitore in perpetua bancarotta. Dove la trovo la voglia di fare tutta questa fatica?, mi domando. Risposte non ce n'è. Vivo il problema come se non esistesse, eppure sono conscio del fatto che esiste. Vivo disinteressandomi del problema. Come Medea.
Ma soprattutto, dopo tanto correre per laurearmi entro i tre anni, dopo tanto sforzo per ottenere un diploma che mi conferisca il titolo di qualcosa che non si può "diventare" ma solo "essere", a mio modo di vedere le cose, dopo che avrò trascorso intere mattinate tra una biblioteca e l'altra... dopo tutto questo, cosa succederà? Dico a me stesso che avrei potuto scegliere una vita più semplice, limitarmi a fare lo "studentello universitario, piccolino e solitario", diventare magari un bravo filologo o un paleografo della media latinità; avrei potuto scegliere di non fare contenti mamma e papà, infischiarmene di avere un titolo che difficilmente mi darà soddisfazioni lavorative. Però lo faccio ugualmente, controcorrente e schivo di me stesso, cercando di "ignorare".
Non posso più soffermarmi a meditare sul da farsi. E' nuovamente tempo di agire e di alzarsi. Nuovamente tempo di sbrigarmi, incalzato dai mesi che passano, un anno che somiglia più al rush finale di una corsa ad ostacoli, l'ultimo giro di lancette che si può identificare come "momento della verità". Tutto mi incalza, tutto si frappone tra me e la mia realizzazione personale, io chiudo gli occhi e mi preparo a fare l'ariete, a sfondare una porta dopo l'altra, a perforare muri di cemento armato, sempre col piede in due scarpe piuttosto scomode. Come Medea, che custodiva il segreto del palazzo, e avrebbe fatto meglio a fuggire per non essere uccisa dai Corinzi. Ma Medea rimase immobile, vittima sacrificale; sapeva di andare incontro alla morte? Scire nefas, mi ripeto. Eppur fedele alla sua natura, ai suoi ideali, al suo sé.
Non sempre è conveniente essere come Medea.
Poi penso a Cassandra, e penso anche che forse, essere come Medea non è poi così malaccio.

giovedì 4 ottobre 2007

Utopista

Sto imparando, a fatica, che ogni giorno è una conquista. E che, malgrado le labili gioie quotidiane, non sempre si riesce a stare completamente sereni.
Questa mattina ho un groppo sul cuore e gli occhi ancora arrossati per ieri. E constato: non ho più difese. Avevo giurato a me stesso che non sarebbe stato più così, che sarei rimasto sempre all'erta ad ogni campanello d'allarme, ad ogni minimo movimento sospetto.
Tutto questo tanto tempo fa. Ricordo nitidamente le immagini di me stesso, come se potessi, dopo un po', riuscire a guardarmi dall'esterno.
Era una notte di inizio di maggio, non potrei mai dimenticarla: era il mio compleanno. Avrei dovuto festeggiare. Diciannove anni, il liceo che finalmente volgeva al termine, uno stacco col mondo di "prima", una partenza imminente che mi avrebbe portato lontano.
Chiuso nella mia Panda rossa, sotto uno dei tanti pini marittimi che accompagnavano la strada tortuosa che conduceva al cimitero della mia città, tenevo le gambe strette al petto, rannicchiato sul sedile, piangendo disperatamente. Mai avevo sofferto così tanto in vita mia. La mia prima, vera storia d'amore, era finita per sempre. Le lacrime martoriavano il mio volto gonfio di pianto. Quel giorno, il giorno in cui la mia vita stava imboccando una nuova prospettiva, mi ripromisi che mai più, mai più avrei saputo piangere e soffrire a quel modo.
Ovviamente non ci sono riuscito in seguito.
Ho pianto per tutte le persone che ho amato, anche solo un po'(perché lo ammetto, si può amare anche solo "un po' "). Con le meteore mi sono sempre e solo arrabbiato.
Oggi che invece di anni ne ho ventuno, pensavo che qualcosa sarebbe cambiato.
Invece no.
Piango ancora per la persona che amo. E mi rendo conto di quanto io sia fragile. Quanto mi feriscano le parole gettate nella mischia a casaccio. E quanto siano precise nel provocarmi delle stigmate purulente, che bruciano anche il giorno successivo. Cerco di leccarmi le ferite per disinfettarle, e intanto rimugino, e mi viene da morderle.
Qualcuno, dall'altra parte del telefono, forse, non capiva e mi parlava di autodifesa, sì, "voglio che tu sappia che non l'ho fatto apposta, mi dispiace davvero". Però anche a me. "E' che a volte ho queste reazioni, forse per difendermi". Difenderti da me?
Io in amore sono come un'ampolla di vetro finemente soffiato. Ecco. Con chi devo prendermela? Dove ho lasciato le mie, di difese? Perché cazzo io non sono più capace di preservarmi?
Realizzo ora che la giornata di ieri era stata davvero pesante. Un esame all'università passato alla grande dopo una lunga e soddisfacente interrogazione, ho imparato a leggere e tradurre alcune lingue antiche, volevo condividere con te la mia gioia. Volevo dirti che avevo voglia di fare l'amore con te proprio in quella sera, distrutto dalla fatica e divorato dall'amore. Tu mi inchiodi al muro con le tue parole ingiuriose. E io piango come un bambino.
"Non ho difese, ma ho scelto di essere libera, adesso è la verità, è l'unica cosa che conta. Chi mi sa fare qualcosa? Se mi stai sentendo, avrai cura di tutto quello che ti ho dato?"
Così diceva Elisa, in "Luce".
Io le mie difese, non ce le ho più, per l'ennesima volta, e non riesco ad innalzare le mie barriere.
"So che ho bisogno di te, non ho mai saputo fingere".
Ancora Elisa.
"In tanto dolore, niente di sbagliato, niente, niente!"
Sempre Elisa.
Ma forse ha ragione lei. L'amore è fatto per soffrire, di tanto in tanto. E la mia utopia di amore perfetto va sempre più a rotoli, in nome di un realismo nudo e sconsiderato che non risparmia nessuno. Neanche me.
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