giovedì 26 giugno 2008

Le Verità Nascoste

Sul mio petto nudo e accaldato scendono lente, silenziose, gocce di un pianto che non è il mio. Sono io stesso a provocarle, ma non mi toccano veramente. Le ho sentite attraverso un telefono, mentre cercavo di fugare ogni dubbio; scavare nei recessi più nascosti di una persona è duro e doloroso, specialmente se si tratta di qualcuno che si ama. Io sapevo che lì, dietro una cornetta, celata dietro un prefisso e un numero, c'era una persona che mi ama moltissimo, forse più di quanto sia capace io. Nel frattempo, piangeva; le lacrime sbattono mute sulla parete del mio freddo e lucido discernimento; lacrime che dicono la verità, nuda, di colui che spogliato ho visto fino ad ora solo nel suo corpo. E tutte le volte che gli ho sfilato un indumento, fosse anche con la grazia della neve o con l'impeto furibondo di un leone affamato, ho sperato, ho sperato fino all'ultimo di aprirmi un varco oltre quella barriera perfettamente inattaccabile. 
Poi arrivano i mesi come questi ultimi, arriva giugno infuocato più del dovuto, il limite della mia sopportazione l'ho ormai oltrepassato da un bel pezzo, tra ansie, attese vane di parole mai arrivate seppur richieste con l'umiltà di un mendicante, momenti di sconforto e voglia di squarciare il cielo con il movimento frenetico delle braccia. 
Compongo il numero della sua casa, non ho resistito, ho dovuto parlare, ho dovuto, non potevo più dire mezze verità. Ti ho pugnalato? Non volevo ma ho dovuto farlo. Per smuoverti, per dirti che io ho bisogno di qualcos'altro. Non so cosa sia ma penso di volerlo. 
Intanto ho smesso di ponderare le parole, sono state una slavina, un vomito acido e purulento, l'emorragia del mio cuore e del mio cervello che non si accontentano più della bella matrioska, ché non riesco più a scartare, ad aprire, le mie mani sono ferite e piene di calli. 
Ora ho chiaro tutto. Ho capito tutto quello che c'era da capire. 
Vedere di più. Non mi sbagliavo quando parlavo della caverna. L'amore mi ha incatenato con la faccia incollata alla parete rocciosa e io non mi sono mai preoccupato di liberarmi. Poi è arrivato il giorno in cui non mi bastava più toccare la pietra rugosa, sentirne l'odore e l'impercettibile tremore. "Quello" che i sensi non possono percepire mi ha richiamato da lontano, prima come un'eco lontana, poi sempre più vicina, più acuta e sordida. 
Com'è che si chiama? Ha un nome, "quello"?
Perché io ne ho così bisogno, perché non riesco mai a farmi bastare l'amore? 
Ad un tratto mi sono mancate le parole, avevo capito di non aver più nulla da dire. Ogni tassello era stato sistemato, il quadro era completo, l'abbiamo guardato insieme con sconforto, questo sì, ma anche con la consapevolezza di essere di fronte alla "ultima spiaggia", oltre la quale c'è il mare e tutto finisce, e non c'è più terra intorno a consolarci. 

Ho schiacciato un tasto rosso che ci ha tolto la voce fino a stasera, un paio d'ore per riflettere con calma. Io sono tornato, in maniera inconsapevole, alle parole della Cantantessa. Che, nel suo primo album, quello del 1996, quando aveva circa la mia età, diceva:

ma come posso dare l'anima e riuscire a credere
che tutto sia più o meno facile, quando è impossibile?
Volevo essere più forte di ogni tua perplessità,
ma io non posso accontentarmi se tutto quello che sai darmi
è un amore di plastica...

E' un amore di plastica perché so che c'è di più. Questo lo sento, l'ho sentito sin dal primo istante. L'ho sentito quando ho incrociato i tuoi occhi la prima volta, e ho continuato a sentirlo quando, da febbraio sino a novembre, ho dovuto attendere per vederli chiusi mentre la tua bocca si abbandonava alla mia. Ed io ero pieno di felicità, estatico, mai così vicino alle stelle. 
Ora ti chiedo di riaprire quegli occhi, quegli occhi azzurri come il cobalto che sapevano di tanto e di buono. Dimmi che non mi sono mai sbagliato, che non sto sbagliando a fidarmi di te.

lunedì 16 giugno 2008

Sur la route de Damasque

Sono giorni strani che provocano aritmie cerebrali. Sarebbero certamente migliori, se andassero all'unisono col cuore. Ma il cuore non sa parlare che con l'istinto. E intanto la mente si rivolge a se stessa con quel fare inquisitorio che avrebbe potuto, secoli fa, mettere sotto torchio una candida vergine, fino a condurla, ormai quasi esanime, a confessarsi colpevole di stregoneria. Io, che non sono né vergine né strega, che non sono tutto cuore o tutta mente, non so più da che parte stare. Il processo che mi intento quotidianamente mi rende esausto. Allora mi domando: perché tutto questo? 
Ogni attimo della mia giornata è consacrato alla ricerca di risposte finali ed incisive, senza possibilità di ulteriori indecisioni. Che invece poi si ripropongono, più armate e incattivite di prima, come bestie feroci chiuse a doppia mandata in una gabbia dorata e provvisoria. Peggio, come malati potenzialmente infettivi e messi in quarantena, in attesa di direttive dai piani superiori. Eppure sono io a mettermi da solo in questa condizione d'incertezza non giustificata. Eh sì: lo sto realizzando, la cosa mi dilania, io sto facendo quello che si dice "crearsi dei problemi dal nulla". Dubitare di tutto, sottomettere ogni singolo aspetto della mia vita al vaglio della più spietata dialettica di sofista da quattro soldi. Mettendo alle strette le situazioni, credevo, si riesce a spremere il succo del problema e a trovare la risoluzione. Invece mi sto rendendo conto che questo procedimento, quando si innesca, si tramuta inesorabilmente in una reazione a catena che coinvolge tutto: pensieri, azioni... persone. Sentimenti veri. Il nuovo "mito della caverna" si è ormai stagliato dinanzi ai miei occhi: sciolte le catene che mi schiacciavano contro le fredde pareti della grotta, sono uscito fuori e ho visto il mondo con occhi diversi. Più scaltri, calcolatori, forse più disincantati; ho guardato ciò che possiedo con tinte meno brillanti e prospettive più chiuse. 
Come nella tragedia classica, sento di aver raggiunto il climax della tensione. 
E sento che è giunto il momento di agire. 
Armato di buona volontà, a testa bassa come un ariete, sono pronto a scagliarmi contro il portone sbarrato per vedere cosa c'è veramente dietro. Preparo la mia riscossa, il mio riscatto, la rivincita e la vendetta, tutte insieme, tutte racchiuse dietro un gesto di stizza rivolto contro questa situazione di abisso. Ho allacciato le cinture e sono pronto al decollo. Tre, due, uno, zero. Si apre l'età dei lumi anche se la confondo con la fiamma di un accendino di scarso valore. E forse è tutta lì la risposta, tutta dietro una minuta lingua di fuoco, che non è un fuoco vero, di quelli che ardono in un camino o che avviluppano una foresta. Non è un fuoco vero ma ne ha tutte le caratteristiche: perché è caldo, e brucia, e ustiona la pelle incauta, e illumina e rischiara il buio. Forse sì, è proprio questa la risposta alle mie domande. Non cercare di sapere sempre tutto, non cercare di azzardare previsioni che poi rischiano di rivelarsi delle delusioni. Anzi è nelle piccole cose di ogni giorno, quelle che hanno il retrogusto sgradevole dell'abitudine, perché è così che amano mascherarsi. Perché se tutti riuscissero a coglierne il reale valore, sfuggirebbero via come uno stormo di rondini scacciate dal rigido inverno. E invece se ne stanno lì, accoccolate in un luogo imprecisato tra il cuore e la mente, tra il battito e il respiro, tra due labbra che si sono baciate infinite volte, e ciascuna volta il sapore era incomparabilmente più dolce della precedente; e sono tra due corpi che si conoscono bene, e la magia è tutta lì, sempre fresca eppur la stessa dei giorni più felici, quegli stessi giorni che oggi sembrano foschi e grigi come nubi cariche di pioggia. 
Così, semplicemente e inaspettatamente, la luce ha rischiarato un sentiero radamente battuto, con bianchi e tondi ciottoli di fiume ai lati, qualche filo d'erba e tanta polvere, senza impronte. Un senso di abbandono che mi ha attirato e che ha il gusto misterioso della scoperta, della nascita. O forse della riscoperta, della rinascita. 
Per poi ritrovare se stessi, in fondo a quel sentiero, e serenamente specchiarsi nelle acque di un ruscello silenzioso, sotto il lume rassicurante di miliardi di stelle. 

lunedì 2 giugno 2008

Nothing To Declare?

I giorni stanno trascorrendo con impaccio e timidezza. Sembrano un gruppetto di lugubri nani dal cranio rasato che trascinano dietro di sé centinaia di sacchi pieni di Tempo. E così, senza che nemmeno me ne accorgessi, mentre ero distratto dalla pioggia che non sembra voler cessare, mi sono ritrovato a scivolare in un giugno ancora anonimo, ancora acerbo, non ha ancora il sapore dell'estate che vorrei sentire sulla lingua. 
Ancora mezzo in letargo, io strascico la coda come fosse la coperta di Linus, senza voglia, senza stimoli particolari. Io lo chiamo "down", in questo momento sono "in down", giù, in basso e sto continuando a scendere, piano e inesorabilmente. Ma pazienza: la mia inerzia di fronte alle cose ha il sapore del disinteresse; come quando, recuperato il bagaglio, si getta uno sguardo alla dogana in aeroporto, sempre vuota, sempre desolata, e si prova la stessa forma di indifferenza. 
Parlo poco, vedo molto gli amici e bevo parecchio, tanto, non devo guidare. Al massimo la bicicletta alle quattro di notte. Ma figuriamoci, tanto non passa nessuno alle quattro di notte lungo la circonvallazione. Con le cuffiette e la musica a farti compagnia in quei pochi minuti di tragitto. Se mi sentisse mio padre, mi porterebbe via da Milano per le orecchie. 
Poi io cerco di non pensare al recente passato. Ma non riesco a non fare continuamente quei fottuti bilanci del giusto e dell'errato, del buono e del cattivo, del realistico e dell'utopistico. A quello che ho, e a quello che potrei potenzialmente avere. 
Ma non si stava forse meglio, quando si aveva di meno e ci si contentava di quello che si possedeva? 
Dovrò imparare a fare pace con me stesso. Porre un freno a tante cose. A troppe cose.
Come alla mia ansia di dover sempre essere il migliore, di primeggiare, e di non vantarmi mai di essere il più bravo.
Dovrò imparare che nella vita si vince e si perde, sempre, e che la vittoria non si può pronosticare in modo troppo semplice.  
Che nella vita non esiste l'eterno movimento, ma che ci sono momenti di stasi e quiete, e bisogna accettarli per quello che sono, e non "in potenza". 
Mi ripeto questo vademecum del benessere eppure non basta. 
Qui c'è puzza di tempesta. Sento che potrei dare di matto...
...una pentola che esplode all'improvviso
spargere resti di tutto quel che mi circonda e vedere con noncuranza i brandelli di vita morta che ho intorno
passare come un uragano in mezzo a una foresta e devastare la vegetazione
la lama di un frullatore che si fa strada tra chili di carote con irrisoria facilità
voglio tagliare, voglio mordere, azzannare, addentare, ghermire, gustare, voglio leccarmi le labbra con voluttà, voglio lasciare tutti a bocca aperta, spiazzare, stupire, convincere, 
poi piano piano, torna la razionalità a farmi visita, come tutte le notti prima di addormentarmi e le mattine al mio risveglio; allora sollevo faticosamente le palpebre, constato di avere ancora le braccia attaccate alle clavicole, le gambe alle anche, i piedi reattivi, le dita sgranchite. Mi preparo il caffè sempre con la stessa moca, preparo la colazione, forse esco e forse no, tento di studiare, telefono a L. due volte al dì, raramente una di più; parliamo al massimo mezz'ora tra entrambe le chiamate; poi tiro tardi alla sera, vado in palestra, sollevo pesi e contraggo i muscoli per sentirmi più vigoroso; mi corico ad orari improbabili, fumo decine di sigarette, le ore riprendono a scivolare nella silenziosa notte della casa. 
Poi riapro gli occhi.
E' il due di giugno, ma la storia non cambia: I have nothing to declare. Have a nice day.
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