venerdì 28 novembre 2008

Tak, København. Tak, Danmark.

Ma ecco che, improvvisamente, prima uno, poi due, e poi cento, mille, da non poterli contare più; danzavano leggeri come minuscole foglie di robinia, portati dal vento, soavi come note elargite dalle dita di un esperto pianista o dai fiati razionali e misurati di un suonatore d'armonica. Sui guanti, o infine adagiati tra le cuciture del caldo berretto di lana, i primi fiocchi di neve cadevano dal cielo, sul mio capo dai capelli scuri e così inconsueti e mediterranei per loro, avvezzi piuttosto ad occhi cerulei e chiome bionde, forse un tempo appartenute a qualche stirpe di vichinghi costumi. 

Ero là dove si punta il dito per indicare un posto lontano su una mappa. 

L'aria di København mi sembrava più aria, il tiepido e timido sole più sole, l'acqua più liquida. L'essere più vero e conforme a se stesso. La strada più facile, la coscienza più sporca ed esitante sui minimi dubbi. Dove gettare la sigaretta che, lentamente, si sta esaurendo, per esempio, escludendo quasi con attitudine naïve la possibilità di spegnerla sotto il piede. La sensazione era la stessa che si potrebbe provare calpestando il suolo di un luogo sacro, come un santuario o una moschea. Mi sentivo indegno e inadeguato. Sudicio e irrispettoso di una ignota tradizione secolare. Invalido tra i mutilati, afasico rumore, immerso in muti pensieri e altrui felpati scalpiccii. 

Poi, lentamente, sentivo di voler essere parte di quanto abbracciava lo sguardo mio. Un razionale senso critico andava metodicamente abbattendo lo stupore suscitato dai comportamenti a prima vista più inusitati, eppure così sinceri da non poter essere premeditati: interiorizzati, bensì, non fanatici, naturali, abituali. E mi chiedevo donde venisse tanta e tale capacità di offrire il sorriso allo sconosciuto, e la mano vigorosa al vecchio affaticato. Così grande, e così varia ed altrove a malapena auspicabile, si palesava ai miei occhi quell'agognata forma di rispetto verso l'uomo e verso le cose che quaggiù non ci appartiene. 

E mentre riflettevo sul reale senso di queste parole, tentavo di mescolarmi tra quelle persone dall'apparenza ammirevole e dai modi garbati, recuperando quel gioco di mimesi cui i bambini sono soliti accostarsi per meglio somigliare agli adulti, nella loro attitudine più quieta e composta; e la riuscita non si discostava da quei risultati un po' zoppicanti e goffi che i pargoli stessi conseguono a stento, nonostante il lodevole sforzo. 

Bevevo caldi caffé passeggiando ma con il collo proteso in avanti; componevo improbabili smørrebrød, pur meditando sull'accostamento di sapori più congeniale ad un palato danese; mi sforzavo di non camminare come un tucano che voglia improvvisarsi abile pattinatore sul ghiaccio. Fallivo miseramente ogni volta, ma mi prendevo gioco di me stesso e della mia diversità di cultura e appartenenza, allorché pronunciavo le "o sbarrate", come le chiamava lui, allo stesso modo delle "o con i due puntini sopra"; no, non si possono affondare, mi dicevo,tra il convinto e lo sconsolato, le proprie radici in un terreno così fecondo. Noi siamo come fiori del deserto, abituati a vivere di quel poco che la natura ci concede. Come rendersi avvezzi ad una simile abbondanza di dolce e odoroso terriccio, soffice, nutriente?

E così sono tornato qui dove si punta il dito per indicare un posto triste e nebbioso su una mappa.

Ho portato via qualcosa con me. Alcune monete e banconote, il biglietto del treno per la Svezia, la pianta della città, gli scontrini della cioccolata calda bevuta sugli sgabelli comodi e lineari di un bar in città. E un portacenere in cui scrollare i momenti di nervosismo, affinché io possa ricordarmi che avrei voluto riposare in una culla accogliente; e invece dormo in un giaciglio di chiodi freddi e arrugginiti.

København è in mezzo al mare, ma a me non resta che uno specchio.



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