martedì 20 gennaio 2009

Nox Nebulosa et Mediaevalia

E' così strano pedalare quando la città è avvolta dalla nebbia e dal buio. L'impressione è quella di entrare in una nube gonfia d'acqua e di fenderla, proprio come una lama affilata taglierebbe uno sbuffo di vapore. Milano è in questo frangente una nuvola gelida e ariosa, la terra esala sospiri silenziosi da ossa sepolte chissà quando; gli sporadici alberi longilinei si attorcigliano gli uni con gli altri formando un intrico di legno umido e ghiaccio. A volte mi sembrano braccia umane, innervate, che si intrecciano tra di loro. Sfreccio per Corso Sempione a cavallo delle rotaie di un tram che non può più passare, e mentre la sequenza di lanterne notturne crea mille e mille ombre nuove ed effimere, ma sempre identiche alle precedenti, la mia mente vola a tempi ormai dimenticati. 
E in fondo all'ultimo banco di fittissima foschia, proprio oltre il Parco, non c'è più il grande ago che contraddistingue piazzale Cadorna, e via Dante, piazza Cordusio, piazza dei Mercanti, non sono più lì, non è una notte d'inverno del 2009, ma un'afosa mattina inoltrata di maggio, o forse di giugno, del 1276 in una Arras in tumulto per celebrare la Vergine, tra commercianti di finissimi arazzi che caricano le merci da esporre alla Foire de Champagne. Passando per vicoli sterrati e viuzze lastricate, gli stuoli di donne della Waranche, rumorose e civettuole, come ogni mattina intonano un canto popolare mentre si apprestano alla tintura dei panni; in testa a tutte c'è Alice dal Dragone, che parla per quattro e zitta non sa stare; alla finestra della sua casetta, Mastro Enrico chiama a sé il medico della città per sincerarsi di non aver la gotta. "La malattia vostra si chiama avarizia, signore!", Egidio e Nanni se la ridono di gusto a sentir borbottare il vecchio spilorcio. E' passato appena mezzodì, ma la sguaiata Dama Dolce ancora non rientra dal bosco: si dice ch'abbia una volta incontrato il Diavolo e con lui si sia accoppiata senza pudore, e  da allora, tutte le notti, non può fare a meno di recarsi alla Croce del Prato assieme ad altre donne di malaffare per qualche diabolico consesso. Oggi nessuno più parla con Dama Dolce, tranne la bella Maria, o Marote, o Maroie: comunque voi la chiamiate, lei si volterà di certo e col suo sorriso di perla tra le labbra scarlatte vi farà una umile riverenza. Non v'è più bella creatura in tutto l'Artois, si dice, e nemmeno in Fiandra; ha ben ragione quel briccone di Richieri a dannarsi l'anima per non averle chiesto la mano tre anni or sono, e adesso si dispera al pensiero della sua moglie bisbetica e credulona. La verità fu che, in un fresco giorno di settembre, mentre le foglie d'autunno le contendevano il vermiglio delle gote e la grazia del passo di Maroie, essa andò in sposa ad Adam, abile poeta, amante impareggiabile, cantore dell'amor cortese. Quel giorno gli occhi suoi brillavano al tiepido raggio del sole. Eppure oggi Adam se ne sta solo, con intorno alle spalle il mantello di chi studia e l'abito di chi tutto il dì prega e ricopia chino allo scrittoio. Sogna Parigi, lo sventurato, come l'uccello sogna di ricongiungersi allo stormo che vola verso il Sud. Oggi egli rinnega la poesia, gli amici suoi e la donna che più non lo avvince. Guarda lontano verso la sua meta, al che tutti coloro che più l'amano gli si fanno dappresso, pieni di dubbio e curiosità... Sicché Adam s'alza ritto in piedi, si volta e il manto gli fa un'onda attorno al corpo mentre esclama: "Signori, sapete perché mi son cambiato d'abito?". 
Ma il resto della storia non si può rivelare. Dirò solo che tra poco raggiungeranno la cricca il vecchio monaco vagante devoto a sant'Acario, del quale reca le reliquie in una cassetta, e il pazzo spergiuro della città col suo povero padre spazientito. 
Io sono ormai arrivato al portone della mia casa, che è di nuovo a Milano, di nuovo in questa fredda notte di gennaio; infilo la chiave nella toppa e ripongo la bici al suo solito posticino nel sottoscala, e il seguito della tesi lo scriverò domani.
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