domenica 19 aprile 2009

Esperanza

Ci sono giorni in cui la pioggia è anestetica. Bagna ogni cosa con fervente solerzia, produce un ronzio sordo, rotto solo di tanto in tanto da un bagliore; e allora arriva il temporale. Le gocce si fanno sempre più fitte, picchiettando come impalpabili scalpelli la nuda pietra. Ciascuna fibra organica o inorganica s'impregna di liquido celeste, si scuote nell'aria umida cercando di divincolarsi dall'acqua, e vi riesce, ma solo in apparenza; quella penetra nel profondo e la alimenta, le dà vita per resistere al prossimo sole che si cimenterà nel tentativo di seccarla. 
Il mondo su cui piove, e che lascia filtrare in sé gli scrosci stillanti come crema di latte che versa da un seno: ecco l'immagine che ho oggi di me stesso, in questo domenicale pomeriggio fiaccato dal grigiore; eccomi lì a nutrirmi malvolentieri di un succo d'ignota provenienza - so solo che giunge dall'alto, ma le nubi non mi convincono in pieno; ecco il gambo, ecco lo stelo che cerca di spuntare dal mio cuore; ma il cuore non è più fertile terra, è ora sabbia e sale e indocile granito. S'è spenta adagio la flebile luce, come tenere labbra si chiudono dopo un bacio intimidito da labbra più esperte. Sono bocche avide e mani rapaci, e sgualciti indumenti volare su pavimenti dalla variegata geografia; e conoscere a memoria la mappa di un corpo familiare, ogni scossone, ogni reazione; e il sussultare al pensiero di una lingua calda che percorre un versante del collo, e lentamente sfiorare una nuca, una spalla, un capezzolo; e gli oggetti stessi che sospirano atmosfere di conturbante intimità, quando il pudore è rimasto a sgocciolare dietro l'appendiabiti; questo il mio latte, questo il mio odierno nutrimento. Ai miei virgulti ho dato cibo pregiato che non posso più permettermi di elargire. La dispensa si è riempita all'improvviso di ricordi sconsiderati, inappropriati, inestimabili, e in un baleno ha ripreso a svuotarsi nuovamente, io bulimica creatura, io spezzato, vergato, disarticolato essere, terra inospitale, corpo freddo, casa abbandonata. Penso così che l'uomo sia come un albero malato, il quale cerca di resistere alla sega avida di potatura; e l'albero non può niente, lascia che il metallo recida il ramo inaridito, piluccato da famelici insetti dove una volta fiori preziosi innalzavano il verde all'idea più perfetta di perfezione. Il ramo cadendo solleva le polveri, sembra di udire un grido che si duole dell'amputazione del suo arto, come l'uomo lamenta la perdita dell'amore: a volte nell'urlo, ma spesso sommessamente, imperlandosi dell'inutile dignità agli occhi di se stesso, occhi ancora umidi di una lacrima che tarderà a discendere. 
Ma poi arriva la pioggia, nuovamente, a sciacquare il rossore delle guance, le mani violacee di vene rilevate dal battito. La pioggia si porta via le navi che solcano, raminghe, il mare dell'anima. La quiete torna a tamburellare sui vetri della stanza, il fumo riprende a volteggiare verso l'alto, le note di Esperanza Spalding ritornano ad essere carezze d'inattesa consolazione, anch'esse anestetiche, come la pioggia che lava il mio sguardo ferito, quello di un cucciolo che si lecca la zampetta piagata, ma già pensa al gioco futuro che l'aspetta, incurante del presente perché non ne concepisce l'entità o il valore. Gozzoviglia la natura, banchettano le foglie, si dissetano i terricci, risvegliate le chiocciole, anche questo giorno sta finendo, e io aspetto il fiorire del Giglio. 
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