sabato 30 maggio 2009

Presenze, Bagliori

In un tenue barlume di note, quando le luci si abbassano, è più facile vedere le rare lucciole: nascoste nel roseto di un'essenza disperatamente breve, esse conducono agli occhi il miracolo di bagliori intermittenti, come mirabili granelli di seta iridescente; di quella mantengono la fragranza esotica, la curva sinuosa, il moto continuo di ogni fibra che la tiene insieme. Mi sono sorpreso nello scorgerne una, che sembrava sorreggere la notte col suo timido volo, l'altra sera, tra le tenebre di un albero notturno: era serena. Fluttuava incurante del turgido buio, come un lampione che affonda la sua anima in una trincea scavata nel cemento; così ne veniva a me quell'identica fierezza, nel suo sparire e riapparire perpetuo, nell'inutile certezza del suo essere effimera, e tuttavia non turbata, non terrorizzata. 
Quel motivo fatto di aeree rotazioni e intarsi luminosi ha varcato la soglia dei sensi, spinta più in là dalla vita che le avrei tributato come restante; nel bizzarro tentativo di annotarne su un taccuino immaginario l'epitaffio, è balenata a fior di pelle l'idea che l'uomo concepisce della durata e della persistenza. L'importanza del tempo che ci rimane non ha forse lo stesso influsso d'una carrozza che già sbuffa e che non attende il passeggero ritardatario? La paura feconda il tempo del suo seme nefasto, e genera la fretta, l'ansia di giungere - e il dove non conta. La miriade di stelle continua a scintillare presso il cielo scosso dagli orologi. 
Poi, d'improvviso, un rintocco solenne urta il mio petto dall'interno. Vedo le mie labbra, i miei denti, la mia lingua riflessi in uno specchio, stretti nell'espressione contrita del disappunto. Scopro che non amo il tempo, che soffro le attese, che lamento il ritardo, e compiango la mia misera condizione di essere immerso in un fluido abrasivo. Il tempo. E mi logora, smussa gli angoli dell'anima, chiude le grotte, si spacca in crepacci profondi. Cerco di inoltrarmi e vedo le vite degli altri nella mia vita, racchiuse in una bolla di fragilissimo vetro; non resisto, la rompo, e quelle ne schizzano fuori come impazzite. Brillano nel buio delle mie caverne: sono lucciole, e tracciano la loro scia in un buio che olezza di chiuso e di muffa. Ma ora spandono un nuovo balsamo, più dolce, più gradevole, simile a quello dei semi di girasole nei campi di maggio. 
Le lucciole sono passate di qua, ne sono sicuro: c'è ancora profumo di polvere di stelle. 

lunedì 11 maggio 2009

Ipertrofie Sensoriali

Lo sguardo bieco dei cieli nuvolosi spande sulla terra stillanti profumi di pane croccante e farina. La vita intorno, quella dei venditori di fiori al bordo della strada, e quella della donna allampanata che se ne sta, raminga e impiastricciata di trucco, vicina al solito semaforo, non sembra essersi fermata; così la sensazione del ritorno è rimasta come congelata, banalizzata dall'immobile quotidianità di una Milano già calda di prima estate. La cavalcata interiore del mio orgoglio e della gioia è andata in crescendo al piccolo trotto, avvalendosi del diritto di una certa predestinazione; è quando si ha l'impressione che il destino ci abbia posato la sua mano carezzevole sulla nuca, e anziché colpire, si sia limitato a sfiorare dolcemente, con atteggiamento quasi paterno e protettivo. Con gli occhi socchiusi e le spalle rilassate ho goduto della fortuna che mi era capitata, senza mai separarmi da quel senso di franchezza che accompagnava il mio viaggio insieme a lei. Sovrapponendosi alle immagini della mente, le figure di un ambiente noto eppur nuovo perché vissuto in maniera più autentica e durevole hanno fatto da sfondo ai tanti giorni, ancorché pochi, in cui il sogno si è materializzato in una piccola, ma palpitante realtà. Al passaggio in via de' Cerchi tutto sembrava rivestito di un'aureola dorata di sole. In me ha rivissuto la città vecchia, ammantandosi dei suoi atavici conflitti e del suo splendore rinascimentale che oggi ne atrofizza la muscolatura sopita dal fasto passato. Così io, nuovo, abbigliato in vesti inconsuete, pestando con le suole il mattone e la pietra e il marmo antico, finalmente dispiegato all'aria del maggio già odoroso come una vela alla brezza marina. 
In poche immagini catturate al tempo e al vento incostante riconosco la mia larva che non sa ancora parlare, che non sa ancora camminare; l'osservo con una tenerezza indicibile, quella parte di me che stenta a sbattere le ali. Penso che così si senta la madre di un cucciolo, che tramuta la sua apprensione nella calda accoglienza del suo seno, memore del piccolo che le è stato strappato dalla morte e per cui ancora si duole, d'una colpa che non si decide a perdonare a se stessa. 
Sto comprendendo che non sbaglio a rivalutare negativamente certi aspetti della mia storia. Per essa ho scritto e parlato, per darle voce ho prestato il mio corpo, e le mani e le gambe e il petto. Non provo rabbia. O rimorso, né rimpianto. L'eco lontana dell'ultima lacrima si spegne in una grotta che forse non sarà più scoperchiata; forse che ai recessi del cuore non è dato riemergere? La vaghezza la cerco fuori da me, in uno sguardo o in una parola detta con maliziosa voluttà; la trovo nell'ultimo bicchiere vuotato mentre il mio mondo si squaderna sotto ai miei occhi, e con un sorriso l'arrotolo come una mappa che ormai non serve più, ché la strada è già trovata, l'orientamento è ormai recuperato. 
In questo istante io capisco, io so che dipendo solo da me stesso e dalle mie azioni; io capisco che la paura di essere il vero responsabile è, in verità, il preludio allo schiudersi d'un uovo. Allora il guscio sarà finalmente rotto. Io capisco che devo ricacciare indietro il timore delle scelte della vita. Io imparo stanotte il valore del coraggio che finora m'è mancato. 
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