domenica 19 giugno 2011

Quello che non c'è, ma così tanto io vorrei

Mancano quattro giorni, quattro lunghissimi, interminabili giri di boa da ventiquattro ore ciascuno. Mi sorprendo nel provare attacchi di crepacuore imprevedibili. Sì, è l'ultimo esame. Ma proprio l'ultimo, quello che fai e poi esci e ti ubriachi per dimenticare i giorni e le notti sui libri, con la paura di non passare, col terrore di "oh cazzo di sicuro mi boccerà, non so niente, non so niente". Che poi, alla fine, le cose le sapevi ma ci si sente più sicuri a pensare di non sapere. Come se l'insicurezza non generasse aspettativa di successo (e in effetti a volte può funzionare). Certo, me lo risparmierei volentieri. Ma d'altra parte non si può avere tutto. Su questo siamo d'accordo. Ma quando dal "non si può avere tutto" si passa al "non ho niente", il passo è decisamente più doloroso. Non so perché oggi pomeriggio sento il bisogno di lamentarmi. Credo che mi abbia ispirato il ventaglio di colori finalmente estivi che vedo dalla finestra: Milano, dopo giorni di pioggia, brilla di grano e splende di zaffiro. Sebbene stia passando le mie giornate su una ridicola scrivania di legno di pino, vedere quei colori miscelati nel cielo e nelle costruzioni mi spinge a credere che presto ne godrò. E questo è bene. Meno bene è che l'attesa che mi separa da quel momento la vivrò male. E non tanto per le ansie da studio, quanto piuttosto perché so che dovrò affrontare questo momento da solo. Il mio "solo" vale per il cuore, che da poco ha deciso di fare a meno di lui. Non è vero, il cuore non l'ha deciso: ha dovuto arrendersi alla ragione, all'oggettività, alle immani sofferenze che si è sentito infliggere ogni giorno di più.
Me ne sono capitate tante in questi mesi in cui non ho scritto. Purtroppo sono state tante più negative che positive. Il ricordo dell'amore per me è una ferita ancora aperta, non stilla più sangue, ma tira la pelle perché cerca di rimarginarsi faticosamente. E' come quando vuoi grattare sulla crosta, perché accidenti quanto prude, ma sai che farlo è sbagliato, perché altrimenti quella ferita non si chiuderà mai. In fondo è una di quelle cose che ogni mamma ha detto al proprio figlio: "non ti grattare, ché poi ti esce il pus e ti rimane la cicatrice". Non so perché ho scelto di non disubbidire quasi mai agli insegnamenti che ho ricevuto, ma stavolta sento che per farcela avrei bisogno di farmi legare le mani con un laccio ben stretto. Anche ora, proprio adesso, qualcosa mi ha punto proprio nel centro. E' bastata una vibrazione con un bip-bip di una nota marca di telefoni cellulari.
La verità è che credere alle parole di qualcuno che ami è la cosa più bella che ci sia. Ti infonde sicurezza, fiducia, consapevolezza di non essere mai solo.
La verità è che io ci credevo ma ora, a quelle parole, non so, non ci credo più, anche se vorrei poterlo fare.
La verità è che la notte di mercoledì vorrei tanto poter contare su un abbraccio rassicurante, quando mi sveglierò nel cuore del buio: ma sarò solo. In fin dei conti, sono stato io a sottrarmi a quella presa dolce e velenosa, agognata ma mai, probabilmente, veramente ricevuta quando ce n'era bisogno.
Così le mie pianure si trasformano, a poco a poco, in un deserto privo di vegetazione, arido e improduttivo, che divora le poche oasi nella sua vorace calura tropicale.
Intanto ripenso continuamente a quelle mani grandi e ai piedoni oversize, provetti calpestatori di sentimenti, ma se solo avessero imparato ad accarezzare per tempo... accidenti, quanto rimpianto.
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