giovedì 24 luglio 2008

"Tiresia, Tiresia"

Quando ti metti in viaggio per una persona che desideri fortemente vedere, c'è sempre uno strano nodo che prende alla gola. Si accompagna ad una sinfonia di ricordi e di piccoli accorgimenti involontari, come cantare a squarciagola in automobile durante il tragitto. L'autostrada che si inerpica tra le montagne, via via più alte e più brulle, spoglie nonostante la bella stagione, le lunghe gallerie e le sorgenti del fiume a due passi dal tracciato del guard-rail: tutte immagini mai dimenticate, ma ogni volta più vive nella memoria dell'ex bambino, che non fanno fatica a ritornare nella mente. Allora, solo allora, il flusso si materializza in concretissimi tremolii del cuore, piccole e sorprendenti tachicardie di emozioni. Tutto torna indietro di quasi vent'anni, da quando hai memoria di te. 
Mentre le intermittenti luminarie del tunnel "quello lungo lungo" scorrevano come fotogrammi sul volto di un'irriconoscibile me, così mi sentivo. Tornato bambino alla guida di un'automobile. Sorridente, ma di soppiatto, con ventidue anni sulla patente e appena tre o quattro nel cuore. Giù in fondo, oltre il casello e il bivio della stazione, proseguendo per un'altra decina di chilometri tra strade tortuose e piene di curve, fino ad arrivare al paese, superare il ristorante, la piazza con la chiesa, l'incrocio che conduce alla fontana fino al grande parco, finalmente arrivare, parcheggiare la macchina davanti all'orto e introdursi, mentre il sorriso diventa gradualmente una piccola risata, nella taverna. Poi esclamare due semplici parole: "ciao nonna". 
Ed eccola lì. Ha gli occhi splendenti e i capelli tutti in ordine coi fermagli, indossa il suo vestito blu con i fiorellini bianchi. Anche lei sorride, è seduta sulla sedia, si alza sorridendo celando perfettamente la fatica dei suoi ottantotto anni, solo ora sto pensando che le nostre età hanno in comune di essere divisibili per undici. Imbraccia il bastone, non me lo ricordavo, è un duro colpo per il mio cuore, forse ho sussultato per questo, ha la schiena più curva di quanto ricordassi, più di quattro mesi fa. Ma il suo volto, no, quello è sempre uguale, brilla e se fosse un fiore sarebbe certamente un'orchidea. Quando la abbraccio e la bacio, sono a casa. Il profumo del suo sugo e delle sue polpette ha pervaso l'intera stanza, dove il caminetto spento ha il sapore delle estati trascorse in questa stanza da piccoli, io e i miei cugini, quando la nonna ci faceva ancora paura, prima che arrivassero nuove e più scombussolanti primavere. 
Abbiamo mangiato insieme come fosse la cosa più normale del mondo, ma a me è sembrato strano e mai provato. Le ho versato il caffè come fosse stata la prima volta in vita mia. Abbiamo chiacchierato dei miei progetti futuri, degli esami, di come lei avrebbe tanto voluto studiare, ma suo padre gliel'impedì perché era una ragazza. Tutte cose che sapevo di dover dire e sentire, ma che ho raccontato ed ascoltato con fervore e curiosità. Perché lei, che affonda le braccia nella sua terra come fosse l'intera radice del nostro albero genealogico, è straordinaria. E non puoi non ascoltarla, mentre racconta del piccolo greco Costantino che un giorno scrisse una lettera per lei, e fortuna che c'era il prete a tradurla, o del tedesco che la chiamava "Tiresia, Tiresia", storpiandone il nome con un tono che gocciolava amore. "E te l'ho raccontata, quella volta..." ti dice poi, e tu vorresti rispondere "sì", ma poi ti esce un "no" dal centro del petto perché le vuoi troppo bene per dire la verità. E che cos'è la verità, se poi una piccola bugia può alimentare tanto affetto?
La visita è durata poco. Il tempo di un pasto e di un saluto, l'ultimo abbraccio e i venti euro infilati di nascosto nella tasca dei pantaloni. "Per un caffè", dice lei. "Ma nemmeno a piazza San Marco a Venezia!", rispondo io, con una smorfietta, mi mette a disagio che mi regali dei soldi. "Ti vengo a vedere dalla scaletta" e mi bacia un'ultima volta. Quando passo davanti all'ingresso della scaletta, la guardo e la saluto con due colpi di clacson e un gesto ampio del braccio. Le volto le spalle che lei sta ancora lì, aggrappata al pilastro e col bastone dinanzi alla porta: e penso sempre che quando la lascio lì, dove è nata e cresciuta, dove ha incontrato l'amore e l'ha sposato e l'ha perduto, ho sempre malinconia. Ma soprattutto paura. Paura di non ritrovarla accanto al tavolo, seduta, intenta a far qualcosa, quando ritornerò al paese. Perché il tempo è bizzarro e scappa via, imbianca le cime ed i capelli e smunge la pelle, finché non ti addormenta per sempre, con negli occhi una luce sempre più lontana e irraggiungibile. Lì, tra quelle quattro mura, se ne sta al fresco della taverna, e il lutto fuori dall'uscio, che ha già colpito tutte le case del vicinato, negli ultimi cinque o sei anni, e temo sempre che la prossima porta a cui busserà sarà la sua. Ma preservare la vita e la salute non si può, nemmeno al prezzo delle proprie. E' soprattutto per questo che mi lascio mantenere in vita da quegli odori che aleggiano tutt'intorno a lei, e mi faccio nutrire dei suoi racconti particolareggiati, dal suono saltellante della sua voce ancora vivace e giovinetta, dalla sua inflessione dialettale che proprio non riesco a riprodurre. Solo così ne costituisco un pezzetto per volta dentro di me. Non voglio mai dimenticarla, non voglio non ricordare la sua voce e il suo modo di guardarmi negli occhi, di ridere con la testa all'indietro, di impastare la farina con lo zucchero e le uova. 
Un colpo di mano davanti agli occhi, è tutto svanito. 
E ora che torno nella mia stanza di Milano, mia nonna è ancora lì dentro la mia testa. Sono contento. E lo sono anche di più, perché proprio ora mi sono ricordato che "la coda è sempre l'ultima a scorticarsi". Se lo dice lei, ho ben ragione di crederci. 
Ci vedremo tra qualche settimana, nonna. Stammi bene, e non affaticarti troppo, siediti un attimo, grazie del prosciutto, e delle fettuccine. Saranno sicuramente buonissime. 
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