giovedì 28 febbraio 2008

Ma la colpa di chi è?

E ora io ci rido sopra. Perché se non lo facessi, non sarei me stesso. Ogni tanto riscopro in me una capacità di ironizzare anche sulle cose più macabre, e lo faccio in un modo così insolente da farlo sembrare persino un insulto. 
Ma tant'è. Vi voglio raccontare una cosa che mi è successa proprio ieri notte. 
Se foste stati a Milano, dalle parti di Piazza XXIV Maggio, intorno alle tre e quaranta circa del mattino, avreste visto due soggetti simili a due avvinazzati della peggior specie salutarsi, cosicché ciascuno potesse imboccare la via del ritorno verso casa propria. Uno dei due avvinazzati, tanto per cambiare, ero io. L'altro era un mio simpatico compagno di studi, altrimenti detto Il Reverendo. Dimensioni doppie rispetto alle mie, in pratica una protezione sicura, perché non sono scemo, io, e mi accompagno sempre a persone più grosse di me(oppure sono io che sono al di sotto della norma?). 
Una volta accomiatatomi dal Reverendo, faccio per incamminarmi verso casa. La notte è accogliente come tante altre volte da quelle parti, ma forse un po' di più del solito. Un freddo che non oltrepassa le maglie del mio cappotto di lana sdrucito era il meglio che potessi desiderare, visto che avrei dovuto intraprendere una bella scarpinata. E così, un passo dopo l'altro, in assoluta tranquillità, percorro forse alcune centinaia di metri, quando una voce alle mie spalle, in costante avvicinamento, mi chiama: "Ehi tu, fermati, aspetta". E' una voce che non conosco, la mia tranquillità di poco prima è totalmente offuscata da quell'emissione fastidiosa, inaspettata. Non sono più tranquillo. E' un accento straniero. Forse marocchino, ma non ci giurerei. In quel momento, ho capito perfettamente cosa stava per succedere. La strada che sto percorrendo non ha nessuno sbocco da nessun lato, non un portone dove rifugiarsi, non una traversa in cui infilarsi nel tempo di due o tre passi lunghi. E non c'è un'anima in giro. Del resto, chi mai dovrebbe andarsene in giro per un viale di Milano alle quattro meno venti del mattino? Di martedì, per giunta?
In tutto questo, la mia mente ragiona in maniera assolutamente fredda e consapevole. Non ho modo di imbucarmi da nessuna parte. Okay. Se ora mi metto a correre, questo mi insegue e, tra le altre cose, non saprei verso dove andare. E se corro me lo porto fino a casa. No. Proviamo ad allungare solo il passo, magari desisterà e si fermerà. In tutto questo, non mi volto indietro neanche per un secondo. 
Ma la voce mi incalza sempre più da vicino. Forse per un attimo, un microscopico attimo, ho capito cosa prova un animale che viene messo in gabbia. L'aria che comincia a venir meno e il respiro sempre più affannoso. Io, la strada deserta, il marciapiede vuoto, un extracomunitario dietro di me. Sembra il canovaccio di una storia già sentita troppe volte. Ma come per tutte le cose che si caratterizzano per il "sentito dire", si tende sempre a pensare che a noi non capiterà mai. Che dello spettacolo saremo sempre e soltanto spettatori. Okay. Ma stanotte il protagonista sono io, e quest'uomo sconosciuto che ormai mi ha raggiunto. Mi volto. Mi dice di non preoccuparmi, che non mi farà niente. E sorride. Ha gli occhi buoni, non so come spiegare. Quegli occhi rotondi che sembrano affabili e un italiano perfettamente scorrevole. Il sorriso si è tramutato in un ghigno, la sua mano destra afferra il mio braccio sinistro, e nell'altra tiene una lama sottilissima e me la punta contro il fianco destro.
"Tira fuori i soldi". 
Non so dove ho trovato la calma per non tremare proprio nel momento più delicato di tutta la pièce. Come fosse stata un'operazione di routine, gli ho chiesto di lasciarmi il braccio per prendere il portafogli, ma ammetto che avrei tanto desiderato avere un martello nella tasca. Invece c'era il portafogli da cui ho estratto cinquanta euro, una sola banconota, un pezzo di carta per il quale ora mi trovo con un coltello appoggiato sulla lana del mio cappotto sdrucito. 
Voleva anche il cellulare. E siccome io voglio diventare un attore, con la stessa espressività di una Manuela Arcuri o di una Martina Colombari, con le medesime contrizione e commozione, ho dichiarato di non averlo, ha abboccato. Non so nemmeno perché gli ho detto di non averlo, mi è uscito così, spontaneo, e non è nemmeno questo gran cellulare. Nella mia mente sono passati almeno un centinaio di pensieri proprio su questa piccolezza, del tipo: se ora gli dò il cellulare, addio messaggini carini, addio rubrica, me ne devo comprare uno nuovo, non ho voglia di andare a ricomprarlo, l'ho comprato che era in offerta speciale, e se ora squillasse?minchia che comica, e se poi me lo prende e mi accoltella sul serio?sono un idiota, dovevo darglielo. Il tutto in cinque secondi. Ha stretto nel pugno la banconota e ha ritratto il coltello. E mi ha detto:
"Vai con Dio". E pensare che io non ci credo, a Dio. Intanto dentro di me pensavo: insciallah. 
Non ho realizzato subito cosa mi fosse successo. Ci ho messo il tempo di chiudere il portone di casa dietro le mie spalle e sono corso in casa, mi sono chiuso in camera, ho infilato il pigiama in fretta e furia e mi sono ficcato sotto le coperte. Per la prima volta in tutta la mia vita, ho davvero rischiato grosso. Stavolta avevo sfiorato il labile confine tra la vita e la morte. Proprio qui, proprio a Milano, dove ho ritrovato quella serenità perduta nel luogo in cui sono nato. A conti fatti, Milano mi ha dato così tanto dal punto di vista umano, quanto mi ha tolto dal punto di vista economico: furto d'auto, furto in casa, rapina a mano armata in mezzo alla strada. Un tris da record nel giro di un anno e mezzo. 
Stanotte ovviamente ho sognato di morire dissanguato sotto un portone, in mezzo a una strada. Prevedibile. Eppure quando mi sono risvegliato, in mattinata inoltrata, ho capito di aver avuto fortuna. Perché poteva capitarmi un maniaco, potevano essere due o tre invece di uno, quella lama poteva davvero conficcarsi nel mio fianco, avrei potuto perdere non solo del denaro, ma anche documenti, bancomat, cellulare ed I-pod(proprio ora che mi sono convertito alla mela!). Ma tralasciando questi particolari, ho capito un'altra cosa importante, che invece mi ha fatto più paura delle altre. E cioè che inizio seriamente ad aver paura di andare in giro di notte da solo, proprio io che sono un essere notturno; e che inizio ad aver paura di extracomunitari, clandestini, stranieri. Io che non ho mai avuto uno straccio di pregiudizio verso nessuno. Il crimine non ha età, non ha sesso e non ha nazionalità, questa è una sacrosanta verità. Ma rischiare la vita per un po' di denaro, a questo no, non ci sto. Non ci sto a rinunciare alla libertà di andare in giro quando mi pare e dove mi pare, anche di notte. Non ci sto a dovermi tenere tutto dentro, perché non posso nemmeno raccontare una cosa del genere ai miei. Come minimo mia madre sverrebbe e mio padre mi metterebbe una guardia del corpo alle calcagna. Non ci sto ad avere paura di una persona che ha il colore della pelle diverso dal mio. Non ci sto a credere che homo homini lupus sia un dogma irrinunciabile. No, no, no. Ma intanto continuo ad avere paura. 
E, nel frattempo, a poche centinaia di metri dal misfatto, una volante della polizia stazionava allegramente dinanzi ad una furgonella che serviva birre gelate e panini con salsiccia. 
Ma la colpa di chi è?

venerdì 8 febbraio 2008

Canneti, farfalle ed elefanti

Mi vorrei rifugiare in silenzio da qualche parte. In un luogo ove le propaggini del mondo non possano mai arrivare. Protetto dal placido scorrere di un tempo immemore, reso aggraziato solamente dal delicato battito d'ali di un piccolo gruppo di farfalle. E' un sogno che ricorre mentre sono sveglio. Quando dormo, non riesco a ricordare che sporadiche immagini di qualche incubo, di dubbio gusto gotico. Così, nel mezzo del corso del sole, mi fermo e inizio a roteare immobilmente su me stesso, alla ricerca di una serenità che in questo periodo non mi è concessa. 
Accumulare, per poi rimuovere; ricordare, per poi dimenticare in un baleno ogni cosa. La mente scoppia, circondata da migliaia di stimoli quotidiani, molti dei quali di scarso interesse e a cui non mi posso sottrarre per forza di cose. 
Riecco laggiù, in un meandro della memoria, una minuscola oasi di pace, la sosta tanto agognata che sembra non arrivare mai: dove sto cercando di arrivare? Mi sembra di girare in tondo, a spirale, dentro un labirinto che ho costruito con le mie stesse mani, senza realizzare l'evasione finale. E il Minotauro m'incalza, e io a volte non ho né il coraggio, né la spada di Teseo. E soprattutto, non c'è Arianna che mi dia il filo per ritrovare la strada percorsa. Nemmeno i sassolini, o i bocconcini di pane di Pollicino. 
Le fiabe ti insegnano che a tutto c'è un lieto fine. Omettendo, però, di rammentare a chi le ascolta che la felice conclusione dell'avventura è tutt'altro che scontata. E all'improvviso si fa buio, la luce smette di filtrare dalle fitte siepi incrostate di brina notturna, la nebbia avvolge gli occhi umidi di quel pianto che si ostina a non uscire mai, quel pianto liberatorio, nervoso come una linea spezzata che va a sbattere contro un muro eroso dal tempo e dagli sterpi. 
Se mi corico, non sento che la tensione delle mie spalle irrigidite, del mio collo contratto, della mia testa pesante come un macigno. Vivo una vita che mi apparterrà, probabilmente, tra vent'anni, e intanto sento che il tempo mi sfugge di mano, come quelle farfalle che tanto vorrei emulare, leggere in volo, brevi di vita, eterne per bellezza. 
La notte d'inverno è ancora troppo fredda per consolarmi. Chino il capo all'indietro, in un silenzio che ha il sapore di una resa mascherata da tregua; verso, stillando goccia dopo goccia, l'essenza di un essere frivolo che non sono stato mai e mai sarò. Perché è troppo tardi per essere ingenuo, e troppo presto per essere esperto. Non farfalle, ma cavallette; non rondini, ma sparvieri. Mi sento esposto alle intemperie della vita, sento mancare una corazza e il clangore che emette quando respinge la sferzata nemica. Presto, mi dico, presto tutta questa incertezza finirà, e mentre lo dico in un sussurro soffocato, altri dubbi si insinuano, altre insicurezze, altra sensazione di pericolo imminente. 
Cosa sono ventun'anni? Perché non riesco a vivere con l'occhio costantemente rivolto al presente, ma sempre proteso al futuro, e incalzato dal passato? Il costante fluire dei mesi e delle stagioni continua a non darmi risposte esaurienti, e io perdo la pazienza con me stesso, con i tempi che si allungano a dismisura, nell'effetto doppler di un febbraio che vorrei fosse già concluso già da un po'. E poi mi riprendo, mi scuoto, e i muscoli della schiena sono ancora lì, sull'attenti, induriti e per nulla intenzionati a sciogliersi. 
Certe notti mi sembra di cogliere appieno il senso drammatico dell'esistenza. Ma di non riuscire a spiegarmelo. Non ancora. Ma fino a quando? 
Aspetto. Gli orologi battono l'ora, la lancetta prosegue la canonica rotazione, le unghie crescono e s'allungano i miei capelli, unica testimonianza del fatto che qualcosa sta davvero cambiando in modo sensibile, ma percettibile solo a distanza di decadi. 
Ieri la foglia cadeva dall'albero, oggi si ricongiunge al ramo. Il collo non cessa di dolermi e il corpo è indolenzito. Domattina mi sveglierò nuovamente in un bagno di fredda oscurità. Sono un elastico che si torce e torna uguale a prima. Sono una canna che si prostra al vento, e non si spezza, e continua nel suo esistere nutrito di precaria sussistenza. E dalla riva limacciosa di un fiume ignoto, tra le altre canne, ostinate come me, tra i giunchi e i fili d'erba, guardo in lontananza la quercia e penso ancora all'elefante, che voleva essere leggero per volare via come una lieve farfalla. 
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