giovedì 19 febbraio 2009

Febbre

S'è fatto febbraio già da un po'. Sono sottotono, lo ammetto, e il perché non lo so neppure io; ma tant'è, quest'anno va così, mettiamo in tasca e facciamo "ciao" con la manina. Però ho fatto cose buone. Ad esempio, ho finito di scrivere la tesi e già mi lodo e mi sbrodo da solo, come direbbe mia madre (che ama pure "ti faccio vedere i sorci verdi", ma i suoi alunni, poveretti, non capiscono). Ora è tra le mani del relatore, e mercoledì vediamo quanti segnacci rossi compariranno tra le pagine del sacro manoscritto: sì, lo chiamo "manoscritto", e lo pronuncio con voce strozzata e sforzata come lo direbbe un demone. 
Sono tempi di attesa. Direi che sì, Attesa è proprio una stagione della mia vita, è come una festa cristiana, come l'Avvento, il Natale, la Santa Pasqua o la Pentecoste: anche lì si attende che avvenga qualcosa, un miracolo, una nascita, o chissà cos'altro, e mentre un periodo scuro si chiude, l'evento aprirà una nuova era per gli uomini e le donne di buona volontà, il buio si chiude, la luce si apre, il mondo ricomincia da capo. 
Ma io, che non attendo il giudizio e non temo la condanna, vivo il mio momento con una fiacca resistenza agli accadimenti. Non gioisco, non sorrido al pensiero della novità, guardo i miei piedi e mi domando perché agli uomini hanno fatto credere che si poteva volare, una vera crudeltà; io vivo aspettando qualcosa che succeda e mi colpisca forte forte sulla testa, e che ne faccia schizzare fuori questa placida indifferenza alle cose che prima erano importanti, ai gesti che contavano davvero. Tutto è come avvolto in una veste di nebbia perenne e che non mi fa vedere, e sì che la nebbia esercitava su di me il suo fascino velato di mistero e di scoperta. 
Passo ore ed ore ad ascoltare Kate Bush. La sento così vicina, così perfetta, mi rassicura. Lei canta e sembra capire, perché mi viene incontro continuamente e mi accarezza con il canto e la melodia. Come una piccola luce. Come una flebile voce. 
Così finisce che mi addormento per un po'. Vorrei non ricordare i miei sogni perché mi turbano e mi mettono continuamente davanti a me stesso, nella loro verità. Sogno di perdere un aereo verso una meta e di scoprire di avere qualcuno alle spalle, come se già sapesse da parecchio tempo. E allora non so se quella figura corrisponde a qualcuno, o se forse non sono proprio io che mi guardo da fuori e osservo la mia piccola disfatta. Poi un telefono squilla, l'instant messenger trilla, il cellulare vibra, la testa è brilla, io mi risveglio. 
Riprendo a camminare in silenzio. Poi scorgo una vetrina dietro cui c'è il regalo perfetto per lui, sapete, domani si laurea, e io sto così. Vabbè. Decido di comprare quello che è l'oggetto del suo desiderio da anni ormai, lasciando nel negozio il mio secondo "ministipendio". E un rene. Ma farà la sua felicità. E la nostra? 
A volte un bel dono fa sorgere sulle labbra dell'amato un sorriso di stupore e occhi illuminati. 
E copre, lentamente, il fuoco che hai dentro, e non lasci che siano le parole a uscire, ma solo i denti nella bocca. A me ricorda, quel dono, questo dono, di tutti i miei ritardi, dei miei viaggi su frequenze diverse, del mio aprirmi e chiudermi a seconda delle mani che mi toccavano. 
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