mercoledì 30 settembre 2009

Tutta l'anima che c'è

Secondo piano. La vista è sempre stata quella. Lo svettante grattacielo che si arrampica al di sopra di tutto il resto, e due palazzi; e in fondo, il tabacchi, quello con la proprietaria che il primo anno non mi salutava, il successivo accennava un sorriso, al terzo mi guardava con interesse (ma sarà stato reale?), al quarto addirittura pronunciava compitamente: "Arrivederci!", con il mento sporgente e gli occhiali sulla punta del naso. Rientrando, c'è sempre il venditore di britannici prodotti; e svoltando l'angolo, dopo il tatuatore, in una strada di estense reminiscenza, il portone. Quel tappeto rosso. La custode, la prima custode della mia vita, la migliore delle custodi possibile, candidamente parlando.
Tanto ottimismo nell'aria, quel gusto di familiare confidenza anche con gli inquilini più riservati, quel tanto che basta per farti pensare, con una smorfia di malcelato fastidio: "Che cafoni".
Stabile signorile, tre locali più bagno e cucinotto. Si osservino i tavolini rossi, pieghevoli, funzionali... ma non poggiateci mai entrambi i gomiti: il peso della testa, no, non lo reggono! In mezzo ci sono io. A destra variazioni sul tema in tempi di lauro, a sinistra, invece, manifesta la sua strenua resistenza il paguro della Trinacria. Affiancato da cotanta meridionalità, io sono nel mezzo, come la virtù, come il bastone per le ruote, come "tabacco" tra "Bacco" e "Venere". Intorno a me tutto è un po' più bianco, più vuoto del solito. Radio DeeGay suona sempre anche a quest'ora, mentre l'ultima canna si consuma al ritmo delle Pussycat Dolls.
Affittasi. Metropolitana MM3 a 5 minuti di cammino. Un cammino che ha consumato l'asfalto davanti al "Quadronno", nelle notti in cui le sigarette erano finite. Appunti sparsi per le ultime incombenze, le lenzuola disfatte dall'ultimo sesso che vedrà questa stanza: ed è stato intenso come le si doveva. Quattro anni di vita li lascio qui, nascosti sotto quelle listelle del parquet che sono un po' più sollevate, proprio vicino alla finestra. La ringrazio perché è stata il mio rifugio per i quattro anni più significativi che io ricordi; perché mi ha tenuto chiuso e obbligato a fare i conti con me stesso e nessun altro; perché mi ha costretto a studiare scempi letterari anche nelle prime notti estive che imploravano lacrimose "San Lorenzo! San Lorenzo!". E che estati, quanto sudore versato, quante correnti d'aria disperatamente invocate e mai arrivate, quanti pianti impregnati sulle orribili lenzuola anni '70 coi ricami marroni e i fiori stilizzati color arancio.
Una stanza ha un nome, un cognome, e i nomi di tutti coloro che vi sono trascorsi. Una stanza odora di te, conserva di te lo spirito e gli umori. Si imbeve del tuo fumo, del tuo puzzo, delle piastrine antizanzare, del cibo cinese consumato seduto sui cuscini etnici, del vino, delle battute scurrili e sboccate, dell'erba, di sperma, del suono del telefono che annuncia l'esseemmeesse. La mia stanza talvolta mi racconta la mia storia e mi ricorda chi sono, perché sono, quanto sono innamorato d'amore e di odio di quello che sono, del mio essere Giano bifronte, ansioso, speranzoso, luminoso, illuminato, drogato, mai sbarbato, irriverente-deficiente-saccente intimamente, intimidito dal futuro e aggrappato al mio passato.
Quando lasci una stanza succede qualcosa di strano. Si stringe la gola appena inizi a impacchettare la tua storia dentro scatoloni per alimentari di scarsa qualità. Poi avresti voglia di piangere perché, tutto sommato, ti domandi se era proprio necessario separarsi da quel luogo così radicato nella tua quotidianità, quella buona, quella che ti dà la certezza di appigli concreti quando hai bisogno di fare i conti con te stesso. Ma dopo un po', passa, perché prendi coscienza che la fine di un contratto è come il sipario che scende tra due atti: la sospensione degli sguardi, il momento di distensione, l'attesa dell'atto successivo. Della prossima casa. Della stanza che, per forza di cose, devi farti amica, dandole tutta l'anima che c'è in te per renderla più simile a quell'altra.
Stanotte lascio. Domani si cambia casa. Mi serve da morire.
Besame, besame mucho
como si fuera esta noche la ultima vez.

giovedì 3 settembre 2009

En mort de l'été

Cullato da amniotiche onde, a guardare l'affiorare della sera, sopracciglia aggrottate, orizzonte falsato dal mare in movimento; torcendo la barba troppo lunga con le dita nervose, e poi giocherellando con l'anello al dito medio: ora si sfila, ora s'infila, ora rotea sul palmo della mano destra, poi stretto nel pugno per saggiarne l'effettiva argentea durezza. Un brivido scuote il mio corpo: c'è la brezza.
Stagione di intese mancate, e l'autocontrollo se ne va per la tangente. Balzano in mente ricordi di note acute e prolungate, e di percussioni che scuotono nottate in tono maggiore; smargiassi, forse un po' villani per quel modo di fare e di dire triviale che facilmente s'individua nella grossolana attitudine d'un bifolco alle espressioni colorite del linguaggio.
Momenti in cui ho seriamente pensato che le esperienze negative si trasmettano come la più infettiva delle malattie. E così diventa consuetudine il condividerne la sofferenza che ne sgorga. Domande insistite, risposte tormentate: perché non riusciamo a capire cosa gli altri veramente vogliono, veramente pensano. Nel mentre, innumerevoli tazzine di caffè si accalcano su un tavolino sullo stabilimento balneare, e altrettanti mozziconi campeggiano a testa in giù in un sottovaso riempito di sabbia. Sembrano struzzi. Sembriamo noi che sentiamo ma non vorremmo ascoltare.
Notti di papi, papesse e confessioni, notti di tarocchi e di appesi; notti di danze presso spiagge siracusane e di completa inconsapevolezza alcolica; notti inattese con qualcuno di speciale che, ormai, nemmeno ci credevi più che fosse possibile; notti uniche, ma anche ultime, prima di qualche arrivederci che sembrerà non passare mai. Un pino marittimo come unico compagno e amico fidato, a custodire le nostre parole preziose come perle selvatiche, e tu, amica che te ne vai, ma in fondo resti, e come mi mancherai, mia piccola amica, nelle notti come questa in cui sei l'unica che ancora mi invia sms sul cellulare.
Ricominciare, ricostruire, cambiare, impacchettare, trasportare. Ancora un mese qui, poi andrò via. Un nuovo ciclo, qualche incertezza, infiniti quesiti. Suonano i Portishead. Gorgoglia il mio stomaco, e niente nella dispensa.
Un dubbio immenso.
Ciò che resta di un'estate che ho visto morire, in spiaggia, al suono sordo di una pallina. Impattava una racchetta di legno.
Tloc.
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