sabato 31 marzo 2007

Il Mercato delle Quattro Stagioni

E' un venerdì mattina trascorso distrattamente, con un risveglio nella più disperata delle arsure. Esco di casa casualmente, senza pensare che è proprio venerdì. Così mi tuffo in metropolitana, tra le solite decine di persone che si muovono sottoterra come laboriose ed instancabili formiche. Svolgo le mie commissioni, faccio un favore ad un'amica e mi incammino nuovamente verso casa.

Così, salendo le scale che conducono dalle viscere di Milano all'aria aperta, dove il rombo dei treni sotterranei lascia spazio ai clacson e allo stridere degli scambi di rotaie tramviarie, vengo investito da un brulicare incontenibile di persone. E' venerdì, è il giorno del mercato! Pian piano mi rendo conto dell'immensa distesa di bancarelle, furgoni, tendoni di fortuna allestiti con brillanti trovate, e nel mezzo una fiumana di persone. Donne anziane, ragazzini, coppie di perdigiorno innamorati, immersi tra tessuti e reggiseni, tra le voci roboanti dei venditori che espongono le loro merci che, pur in precario equilibrio, restano misteriosamente abbarbicate su spazi troppo piccoli per contenere una simile mole di prodotti. Poco più in là, verso la via principale, è un tripudio di colori e di odori. Il profumo degli agrumi e della verdura fresca si accompagna all'odore intenso degli incensi indiani, della porchetta arrostita ancora calda, dei primi meloni estivi spaccati a metà, così arancioni da fare invidia ad un sole che tramonta. Sembra di assistere ad un arcobaleno sceso in terra per miracolo, che si snoda e si frantuma in migliaia di piccole luci gialle, rosse, verdi, quelle dei frutti di stagione che spiccano ai lati della folla incalzante. Ed è curioso che, in una mattinata di marzo così beffardamente fredda, si possa assistere ad una simile pioggia di rumorosa, sonora allegria. Mescolandomi inaspettatamente a tutte quelle facce impegnate in una scelta meticolosa, ho avuto l'impressione di poter perdere da un momento all'altro i miei sensi, così sovraccaricati, il mio olfatto, la mia vista, il tatto. Per riprendere contatto con la realtà che pian piano mi sfugge, mi avvicino ad una bancarella e tocco un limone, tastandolo bene tra le dita, analizzandone la ruvidezza, esalandone la fragranza che richiama terre ben lontane da Milano, ben più calde e soleggiate, dove il mare lambisce la terra con la dolcezza di un tiepido abbraccio. La venditrice, una signora di mezz'età con un grembiule allacciato al collo, la pelle olivastra e gli occhi bovini, mi sorride bonariamente, e la mia unica risposta non può essere che comprare quei frutti sfavillanti. Almeno potrò dire di aver riportato in casa una fetta d'estate, agognata come le prime ciliegie, ma ancora acerba, come il succo di limone.

lunedì 26 marzo 2007

One Year Later

Ricordo con piacere una giornata di dodici mesi fa. Era una mattina frizzante e soleggiata, di quelle che annunciano la primavera; incentivato da quei raggi tiepidi avevo preparato il mio zainetto, con lo stretto indispensabile. Per la prima volta mi confrontavo con quell'abitudine tipicamente settentrionale chiamata "la giornata al lago". Per me era qualcosa di incredibile. Al massimo, nella mia vita, avevo trascorso le prime giornate di bel tempo sulle rive dell'Adriatico, che pure ha qualcosa dell'atmosfera lacustre.
Mi divertii quel giorno. Rimasi estasiato dalla visione delle alte montagne dalle cime innevate che, silenziose ed inesorabili, si lasciavano bagnare le pendici dalle acque limpide e gelide di quel lago millenario, mentre tutt'intorno il richiamo di un'inconsueta ed inaspettata rinascita della natura si manifestava nelle prime corolle di fiori rivolte verso il sole. Immaginai segreti custoditi sotto la superficie di quell'immensa massa cristallina e sfavillante, interrogandomi su come fosse misteriosamente possibile che tutta quella forza in potenza non fosse in procinto di esplodere da un momento all'altro, portandosi via tutto, uomini e case e chiese, trascinando nel nulla tanta bellezza nel tempo di un respiro.
Da allora non sono più tornato "al lago". Il ricordo di quelle visioni si era lentamente affievolito, assopito, scombussolato, come "un continente obliato" e morto nelle memorie di un unico essere umano. Finché, sabato, sono tornato. Non era lo stesso lago, credo; ma in queste occasioni la geografia conta poco. Ciò che conta sono le emozioni suscitate, gli sconvolgimenti dell'animo. Gli occhi cambiano col tempo e non vedono più le stesse cose di prima.
Ho rivisto "un lago". Cos'è cambiato di quel mondo a me sconosciuto e a sè stante? Forse nulla, in fin dei conti. Ancora una volta c'erano i riflessi rimandati dalle timide onde. Nuovamente le prime fioriture, i primi squarci di cielo sereno. E i rumori ovattati degli uccelli, fruscii di fronde e di erbe mosse da piccole lucertole invisibili. Eppure mi è parso tutto ancora più straordinario di allora. Perché la persona che c'era al mio fianco la prima volta non è più la stessa di oggi. A ragion veduta, ho realizzato quanto stonasse quella presenza in tutto quel marasma gioioso che i miei sensi percepivano. Come se, in un'orchestra ben congegnata, all'improvviso una corda di violino saltasse per un oscuro motivo; come se, tra i tanti colori sgargianti di una fine di marzo, all'improvviso comparisse una macchia corvina che risucchi ogni cosa. E invece, questa volta, era solo arcobaleno. Ed ho sentito una musica intensa e brutale che scuoteva le note del mio essere, che andava di pari passo col battito di due cuori avvinghiati da migliaia, milioni di sospiri. Ed ho deciso di smettere di contare.

sabato 17 marzo 2007

E ci sei adesso tu

Era un triste mercoledì dei primi di Marzo quando ha deciso di andarsene. Alla veneranda età di cinque anni, dopo aver sopportato le ingiurie culinarie della mia coinquilina imbranata, dopo lasagne, parmigiane, paste al forno, torte, soffritti e caffé rovesciati, la povera DeLonghi si è spenta. In senso letterale! I fornelli non respiravano più, né più avremmo sentito dalle sue valvole incrostate da sughi annidati in profondità il dolce aroma del gas metano. Mai più avremmo potuto pulire le sue piastre che recuperavano lucentezza appena qualcuno si degnava di lustrarle a dovere con l'apposito detergente brillantante. Il becchino dell'AMSA verrà a recuperare le sue nude e immote spoglie la prossima settimana, non appena sarà deciso a chi tra di noi toccherà l'ignobile incombenza di sollevare la cornetta del telefono per concordare il ritiro definitivo.
Ma non v'era tempo per compiangere l'amata, si doveva subito trovare la degna erede al trono. E così è iniziata una quête frenetica e disperata in tutti i meandri del regno meneghino, degna delle migliori invenzioni di Ariosto o di Boiardo; nessuna sembrava adatta a sostituirla, una era troppo ingombrante, una troppo bassa, una che addirittura pretendeva di essere pagata ratealmente! Insomma, i poveri inquilini dell'appartamento avevano quasi perso le speranze di ritrovare una regina della cucina. Finché, in data odierna, il sottoscritto, cavaliere errante dei grandi magazzini, senza macchia e senza paura (eccezion fatta per il terrore delle commesse "ti-vendo-tutto-ad-ogni-costo"), si è addentrato in una bottega di simpatici commercianti che mi hanno presentato la piccola Indesit. Era lì, tutta timorosa ed intimidita. Appena l'ho vista, ho capito che sarebbe stata lei la prescelta, la predestinata a reggere il governo della casa. Mi sono avvicinato, ho accarezzato la candida superficie del piano di cottura, esplorando con le dita le scintillanti valvole di sicurezza, ho scrutato le profondità del suo forno con grill. Non è stato difficile portarla via dall'emporio: è stato sufficiente siglare un accordo con i commercianti in carta A4 stampata a toner di stampante, al prezzo di poco più di trecento dobloni d'oro (leggasi: trecentodiciannove euro). A presto, piccola Indesit. Ti aspettiamo per mercoledì a braccia aperte... o forse sarebbe meglio dire: con pentole e forchettoni alla mano!

lunedì 5 marzo 2007

Cantate per me ancora una volta



E' raro potersi considerare privilegiati per qualcosa. Il privilegio è la testimonianza di un vantaggio sostanzialmente derivato da una condizione esistenziale, di una natura qualsiasi: è privilegiato chi è ricco, chi è dotato di intelligenza sopraffina, chi è intuitivo, chi ha un fisico robusto e sano. Mille altre sono le ragioni. E la propria sessualità? E' anch'essa un privilegio?



Ho pensato spesso, in passato, alla mia sessualità come un handicap invalicabile. Chissà quante volte (ad oggi ho perso il conto) ho pensato che la mancata attrazione per le donne mi avrebbe condotto alla rovina del mio ego, roso dall'interno come da un tarlo infaticabile affaccendato a divorare fibre di legno. Ma, come sempre, mettersi in discussione su alcuni argomenti, ne porta alla luce altri. E lì, domandandomi il fatidico "perché io no", ho compreso che avevo un dono, inestimabile, prezioso come una perla. Le donne. Non fisicamente, con la brutalità della carne: ho compreso quanto fosse brutale possedere una donna nel momento in cui ne ho avuta una, mi parve di violentarla contro la sua volontà. Malgrado non fosse così. Ed è forse questo il motivo per cui, nei confronti di lei, non riesco a togliermi l'idea di uno stupro perpetrato ai suoi ed ai miei danni.



Io, delle donne, amo tutto. Amo contemplarle. Mi piace identificarle con le rappresentazione che di loro diedero i grandi artisti. Così, quando vado in giro per la città, non vedo donne, ma opere d'arte. Qualcuna che sembra uscita da un quadro di Botticelli, i fianchi rotondi, le gote pallide, un sorriso appena accennato, i capelli morbidi, i seni sinuosi. Altre sembrano figlie di Picasso, spigolose nei lineamenti, il naso duro, allungato, le vite accentuate. E le Botero, grasse e floride, le guance rosse, il petto abbondante. Qualunque sia la loro fisionomia, mi cullo in una contemplazione quasi estatica.



Ma ciò che più amo di loro è il pensiero. A volte mi piacerebbe essere come Tiresia, avere l'esperienza dell'essere donna, per poi tornare ad essere uomo con una nuova consapevolezza. L'imperscrutabilità del loro pensiero è il mistero più affascinante della mia vita. Altro che Universo e pianeti lontani. Se solo gli uomini (i maschi, intendo) capissero che la più grande scoperta sarebbe quella di carpire ciò che pensano le donne, non ci sarebbe più modo di trovare un interesse nell'anatomia, o nelle congregazioni di atomi.



Forse è per questa mia curiosità verso l'inaccessibile che le donne mi avvicinano. Mi cercano e fanno in modo che gli altri uomini siano invidiosi del privilegio che esse mi accordano con le loro confidenze. Non c'è cosa più preziosa che ascoltare i segreti e le parole delle "mie" donne. Alcune di loro hanno visto crescere me, altre sono cresciute insieme a me, altre ancora le ho viste crescere, sviluppare la loro femminilità, schiarire il tono della voce con trascorrere degli anni.



Le mie donne sono uniche. Non ce n'è una uguale alle altre. Mi raccontano della loro vita ed io resterei ad ascoltarle per ore ed ore senza stancarmi mai. Alcune sono più sboccate, mi raccontano delle loro avventure senza lesinare particolari, altre sono più timide, e io mi diverto a pungolare la loro pudicizia, ben conscio del fatto che vorrebbero parlare a chiare lettere, ma che hanno bisogno di una spinta nel discorso. Alcune sono pacate, tranquille, serafiche, altre pazze scatenate, strabordanti di vita da ogni singolo centimetro del loro corpo. Ne ho di giovani e adulte, di brune, di bionde, di rosse, dagli occhi di mare o dallo sguardo bruno come una castagna di settembre. Ne ho di morbide, di dure, di dolci, di acide, di simpatiche, di antipatiche, alcune si ubriacano, altre si drogano, alcune sono depresse, altre forti come querce secolari. Una è una rosa, una un giglio, una un girasole, e poi il gladiolo, la violetta, la bocca-di-leone e il fiore di loto, la mimosa e l'ortensia, il ciclamino, la margherita, il non-ti-scordar-di-me. Ciascuna col suo profumo di donna, che sia sbocciata da tanto o da poco, o che sia in procinto di fiorire. Le mie donne sono fiori, sono frutti d'estate e d'inverno, sono rocce ed onde dell'oceano, sono venti della steppa e del deserto, sono conchiglie portate dalla corrente sulle rive del mio orecchio; ed io le raccolgo ed ascolto il loro canto, l'eco delle loro parole mi colpisce, e ne resto ammaliato, le mie donne, le mie muse, le mie dolci ed ingannevoli sirene.
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