mercoledì 29 agosto 2007

Madre Terra

C'è chi dice che tornare ai propri lidi fa bene. Aiuta a riscoprire sempre qualcosa di nuovo, dopo una lunga assenza. Quante persone dai volti distesi e raggianti ho visto, in vita mia, al rientro dai loro luoghi d'origine? Con un sorriso sulle labbra e una birra sotto il naso, non esitavano a raccontarmi una lunga sequela di aneddoti, pettegolezzi, tradimenti e fidanzamenti, fuitine e ritorni a testa bassa, e incontri, scontri, bagni al mare di notte e feste in spiaggia attorno a maestosi falò.
Anch'io, vorrei. Ma non posso, non riesco. Che cosa mi succede?
Devo tornare indietro nel tempo. A poco più di un mese fa. Luglio.
Anch'io ero contento di tornare a casa, dalla mia famiglia, dai miei amici, sapevo di essere aspettato. E' una bella sensazione. Perché ti invita a sbrigarti, a non lasciare che gli altri attendano più del dovuto. Ti invita ad abbracci forti e veri, a baci dati a coppie, a risate fragorose. Tutto secondo previsione. Mi sono divertito, sono stato bene. Però devo ammettere che i Long Island ci hanno messo del loro. Ma vabbè.
Una permanenza inframmezzata dai viaggi. Barcellona, prima. Parigi, poi. Stacchi programmati ed entusiasmanti. E ancora una volta, tutto secondo previsione.
Ma l'inquietudine è un serpente. Striscia di notte, ti avvolge la gola, e resta lì, inerte, silenzioso, impercettibile. Totalmente assente, eppur presente. Sempre. Poi, ad un tratto, senza una reale intenzione? senza motivo apparente? improvvisamente stringe. Forte. La gola. Manca il respiro. Aria. Aria. Soffoco. Sono in gabbia. Sono in prigione. Voglio scappare. Che mi succede?
Lo so cosa mi succede.
E' che non riesco ad ammetterlo, non voglio.
Perché mi fa star male.
Ma, tant'è. Io che torno nella mia terra. Sono come un organo trapiantato in un corpo, e rigettato. Una miserevole massa fibrosa che non è più compatibile. Eppur, sembrava. Perché i medici non l'hanno detto a nessuno? Perché me l'hanno tenuto nascosto? O forse l'hanno detto con parole troppo sibilline perché io potessi capire?
Ho sofferto tanto. Sentivo di non poter resistere. Sentivo di essere ascoltato, ma incompreso da tutti. E' tremendo, perché non potevano fare nulla per me. Nemmeno le parole possono aiutare, perché sono la conseguenza di una resa disarmante dinanzi a fatti ingarbugliati ed inestricabili a qualsiasi persona estranea. Cos'ho sentito?
Silenzio. Senso di inutilità. Irrealizzazione. Lacrime ai bordi degli occhi che non riuscivano a scendere. E lo so solo io quanto avrei voluto piangere! Non sono un frignone, ma non ci riesco proprio. Non piango mai nemmeno quando lo desidero. Per vomitare tutto e sentirmi più leggero. Sfogare. Mordere il cuscino, cercare di strapparlo. Io a casa mia. Come svegliarsi in un incubo: ma io che ci faccio qui? Questa non è casa mia. La mia casa è a Milano. Milano. Milano...
...mi risveglio d'improvviso, apro gli occhi. No, non sono a Milano. Sono qui. A casa. E non sento di essere a casa. Non sento quel senso di tranquillità, di protezione. Sento un clima avverso. Mi sento piccolo piccolo. Insensato. Di nuovo, inutile.
Mi sembra un tradimento; ho il cuore graffiato. Riparto pieno di speranze verso Nord. Riecco la pace, il silenzio dentro. Non ci sono più voci che insinuano il dubbio. Non ci sono più i fantasmi che si nascondono dietro la porta della mia stanza verde, lì, a casa. Qui è vita. Là, a casa, la morte dell'anima. Perché? Eppure la terra che ci dà i natali dovrebbe essere come una madre. Darci la vita. Farci crescere. Nutrirci. Allattarci. Con grandi seni, carichi di latte. Invece, la mia Madre Terra stillava veleno dai capezzoli. Ed io l'ho bevuto inconsapevolmente. E sono rimasto intossicato. La mia Madre Terra ha cercato di uccidermi dentro. Uccidermi. Mi tremano le mani. Ho voglia di piangere. Ho impugnato il coltello dalla parte del manico. Madre, voglio ucciderti, ma ho paura di morire anche io.

giovedì 16 agosto 2007

E intanto il tempo se ne va

La musica è di quelle giuste. Di quelle che ti fanno pensare ai viaggi on the road.
Da Santiago a La Habana, da Miami a Los Angeles, da Lisbona fino ad Istanbul. Viaggi, aerei, gente che parte e che ritorna. Un giorno sei qui, domani non lo sai.
"Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre,
ma nell'avere nuovi occhi"



così diceva Marcel Proust, ma io dico che non è vero niente. Si possono avere nuovi occhi solo per ciò che non ci appartiene. Per strade e colline che non siamo abituati a contemplare. Per chiese e palazzi che non ci aspettiamo di scoprire dietro l'angolo.



E intanto il tempo se ne va...



Agosto. Il caldo che ti soffoca e tu che arranchi sulla bicicletta per tornare a casa, le gambe dolenti e ingrossate dal sangue pulsante: i tornanti a ripetizione, il sudore che cola sulla schiena e che imbeve la canottiera. Ti senti un eroe per un attimo, prima di tornare alla realtà: sei sfigato perché il motorino ce l'hai, ma non te ne curi, e l'hai lasciato morire.


"L'attesa del piacere è essa stessa piacere"


diceva Gotthold Ephraim Lessing, ma io sostengo che non è vero niente. Avrei solo una smodata voglia di ficcarmi sotto la doccia, sentire l'acqua che lava via la sabbia, la salsedine e lo smog dalla mia pelle ingrassata e sporca di fatica. Ma mancano altri tre chilometri in salita, e ho la gola riarsa.


E intanto il tempo se ne va...






Si può ormai dire che le vacanze, quelle vere, quelle di Luglio, in cui i pensieri universitari smettono magicamente di tormentarti, sono finite. Finite. The End. E si può soltanto ricominciare ad aspettare la prossima estate, sperando che ti porti qualcosa di ancora meglio di quella appena trascorsa. Mentre tra uno spinello ed una birra, tra attimi di fraudolenta euforia e insostenibile pesantezza dell'essere, peccaminosamente (ma con sapienza) alternati, senti il fischio della civetta in lontananza. E capisci che è giunto il momento di smettere di sognare quella gustosa e libidinosa sensazione di libertà incondizionata.


E intanto il tempo se ne va...
Ma, dentro, in fondo al cuore, sai che ritornare alle tue abitudini ti farà star meglio. Sarà come un ovattato rifugio in cui nascondersi, lontano da occhi indiscreti. Ascoltando, magari, in quei pochi momenti di relax, qualcuna delle Gymnopédies di Eric Satie. Chiudere gli occhi ed estraniarsi, riuscendo a gustare l'effimero ma estremamente più dolce sapore di alienazione dal mondo. In quel momento, sei tu e basta. Niente etichette, niente sguardi altrui. Per me la vera vacanza arriva quando gli altri non ci vanno. Così, almeno, non dovremo litigare sulle ferie. Le solite ed amate persone continueranno a bussare alla mia porta, riprenderò nuovamente le valigie in mano per tornare alla routine tanto agognata.

Ma intanto il tempo se n'è andato. E io sto ancora qui, a scrivere. Ma non chiedetemi per quanto. Stasera sono in vacanza anch'io. Ma solo stasera.

sabato 4 agosto 2007

Rapiscimi ancora, sisplau

E quando si ritorna, si lascia sempre un pezzetto di cuore nella città, e con i suoi profumi nelle narici, e le sue immagini ancora negli occhi. E basta anche solo ascoltare pochi accordi del Concierto de Aranjuez di Paco de Lucia per rimettere idealmente i piedi su suoli fino a poco prima ignoti, per questo misteriosi, e che una volta conosciuti ti avvinghiano con tanta e tale forza da desiderare di non lasciarli mai più.


L'emozione è un continuo crescendo. Fin da quando gli assistenti di volo incominciano ad avvisare i passeggeri del velivolo, prima in spagnolo, poi in inglese, che ci stiamo preparando all'atterraggio. Barcelona è lì, sotto di noi, distesa con grazia ed eleganza come la Maya Desnuda di Goya. E sembra guardarti, con i seni scoperti e ritti, rotondi e diafani come cristalli, lo sguardo traverso un po' malizioso, i riccioli neri da Amazzone.


Sufficiente toccare il suolo catalano per iniziare a sentire qualcosa che ti si smuove dentro. Più un coinvolgimento emotivo, mosso da reminiscenze scolastiche, che in qualche modo ti rende partecipe dei trascorsi delle genti che nacquero, vissero e morirono su questa terra baciata da non so che dio benevolo. Lontana ormai l'immagine delle terre mozarabiche, delle genti mediorientali che distrussero per ricostruire in modo ancora più magnificente. Non più Alhambras, né Alcazar, né bagni turchi, ormai esclusivo privilegio degli eterni rivali andalusi e castigliani. La bella Catalunya, un nome che riecheggia morbido dentro la mente, un nome che accarezza. Rotondo, senza sporgenze, piacevole da ascoltare.


Eppure, tra le sue falsamente modeste rotondità, Barcelona prima ti invita, poi ti abbraccia, sempre con maggior veemenza, altro che flamenco. Una passione sconvolgente che ti scompiglia i capelli, come "il maledetto vento di Levante che fa impazzire la gente". E dopo ti sospinge in alto, in balia delle correnti aeree che sorvolano il Port Vell e la Barceloneta. E più su, ancora, in cima alle torri che paiono al cielo essere di sabbia costruite, quando invece è la viva pietra a parlare, a raccontare, scolpita proprio così come fu nella mente di colui che chiamò a sé tutte le forme della natura per cercare di raggiungere Dio, un genio punito da quello stesso Dio che venerava e che tentava di compiacere, il quale gli impedì di portare a termine la sua ambiziosa costruizione, forse ricordandogli, in punto di morte, il tragico mito di Icaro, che troppo volle avvicinare il Sole, ben oltre i limiti che la cera gli imponeva, pietosa, piangente dalle ali come lacrime nel mare.

Ma tutto questo non bastava ai catalani, troppo fieri per arrendersi, più che mai combattivi per recriminare ed ottenere la loro autonomia, poiché non si può rinnegare la propria natura, né il diritto alla lingua originaria. E se la vita è fatta di compromessi, ben lo compresero i castigliani, figli di Isabella, sposa altezzosa e pretenziosa, e un bel giorno la cattolicissima Spagna si ritrovò a fare i conti con la ribelle Catalogna, la zingara dagli occhi più intensi di tutta la penisola, la strega con le sue mitiche arti magiche, la più sensuale e misteriosa delle ninfe iberiche.

La danza continua instancabilmente dalla sera alla mattina, e le musiche si spandono dal Barri Gotic sino alle punte più alte del Montjuic, il silente dominatore della città, custode e controllore che Barcelona non sia mai più attaccata dai pirati, pronto ad intervenire coi suoi cannoni per preservare la sua libertà.

Colma di gioielli scintillanti, adorna di vesti non bianche, ma dipinte di centinaia di diverse sfumature colorate, dal passo sicuro e le anche che disegnano piccole ma sensazionali ondulazioni, con le sue voci suadenti di milioni di persone che paiono continuamente felici, l'alma di Barcelona vaga per tutte le strade alla ricerca di me. E quando i nostri sguardi finalmente si incontrano, con sorprendente ritualità procede verso di me, ed entra dentro di me, mi scuote e mi fa rabbrividire, poi si prende tutto di me. Il corpo, gli occhi, le mani, la lingua, le gambe, mi fa eccitare e mi spinge ad unirmi con lei in un amplesso di cui non mi è concesso ricordare le dinamiche più scabrose ed intriganti. Ma mi ha condotto in un mondo che non può svanire nella memoria, regalandomi la regale visione di una terra che ha il profumo del pesce e del porto e le movenze aggraziate di una danzatrice zigana, la vagabonda regina di Spagna, l'erede di culture millenarie, la nuova padrona dei miei sensi. Rapiscimi ancora, sisplau.
Creative Commons License
This opera by http://adynaton86.blogspot.com is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.