lunedì 31 dicembre 2007

En attendant minuit

Cominciano a calare le prime tenebre. Il freddo, fuori di casa, è pungente. Ma anche tra le mura domestiche volteggia qualche spiffero un po' molesto. E intanto che le note si distribuiscono nell'aria, con lentezza e morbide volute non troppo sottili, la mia cucina è in trepidazione. Il forno è pronto ad accendersi, i lieviti scalpitano nei loro piccoli incartamenti d'alluminio, le farine, di grano tenero e duro in parti eguali, sono già mescolate tra di loro. Le patate saltellano nell'acqua bollente, rumoreggiando allegramente. Arrivano messaggi sul telefonino con orari e direttive, tutto sembra presagire una fretta incalzante. Eppure ho già scelto cosa indossare per la serata. L'unico dubbio è sui pantaloni, ma si risolverà. Adesso penso solo alla focaccia che dovrò impastare. La vera ricetta pugliese, con le patate e i pomodori di Pachino. Sto solo aspettando di poter affondare le mie dita nell'amalgama filante. Modellare la creazione sino alla forma desiderata, lavorando coi polpastrelli. Ho voglia di sporcarmi di bianco farina i vestiti, fare il bagno in quell'impasto che sembra assumere e conservare la tua forma, come in un calco di gesso indurito. Strizzare i pomodori tra le dita delle mani, percepire la piccola esplosione color rosso sensuale, mediterraneo, estivo, mentre alla finestra bussa la tramontana, dispersa nel cielo come tra le mie tende. 
Tutto per dire che forse ho voglia di dimostrare che io, la focaccia, la so fare bene, anche se non sono pugliese. 
Però in effetti sarebbe divertente, no? Andare alla festa con la mia focaccia, bell'e pronta per mandibole e mascelle. Vedere le loro bocche masticare compiaciute, ripulirsi dalle briciole con rapido tocco della lingua, e annuire con la testa e con gli occhi sgranati, sapete quando sembra che dicano "Hmm, proprio buona!". Sai la soddisfazione! Il Capodanno, quest'anno, non si festeggia a casa mia. Ma una traccia della mia cucina volevo portarla. 
E mentre immergerò le mie mani in quella melassa dall'aspetto ancora anonimo, farò qualcuno di quei pensierini di cui si rimane vittime in prossimità della fine d'un anno vecchio e consunto, che si desidera cambiare come una giacca ormai lisa e consumata sui gomiti e sui polsi. Liberarsi dei dodici mesi trascorsi con un colpo di spugna e il ticchettìo di un orologio da polso. Straordinariamente, e senza alcun sospetto, quei buoni propositi alla fine non si portano mai a compimento. Quante promesse offerte e ricevute ci sono nel corso di una vita? Quanti errori ci siamo ripromessi di non commettere mai più? A quali persone ci eravamo proposti di stringere la mano, mettendo da parte ogni rancore... e a quali avremmo voluto dare un abbraccio o dire anche solo una parola, una di quelle che fanno bene al cuore. Un "ti voglio bene" o "mi sei mancato", un "è stata colpa mia, perdonami". Le lancette girano, le promesse cadono come foglie morte al suolo, calpestate, scricchiolanti e inaridite dall'indifferenza. L'anima continuerà a specchiarsi nell'acqua reflua della memoria disattesa, e si troverà nuovamente sporca, intrisa di solida ingordigia e maestosa viltà. 
Ma intanto la focaccia sarà dorata e fragrante. Calda e croccante al punto giusto, spolverata d'origano e di un po' dei miei pensieri. Tutti ne mangeranno un po'. E un boccone dopo l'altro, inghiottendo il buio e le lacrime dell'anno che va, sorrideranno, sempre un po' di più di pari passo coi minuti; e allo scoccare della mezzanotte, agognata, bramata, sollecitata da flutti di spumante e dall'aroma del sughero fresco, s'augureranno un felice anno nuovo. E chi se ne importa se il passato non si lava via, e se le promesse si spegneranno come lucciole in autunno. Per un attimo, anche se breve, sembrava tutto vero. 

*Buon anno a tutti voi*

venerdì 14 dicembre 2007

Tempo di Prove

La mia prima parte in una commedia me la guadagnai nel ruolo di un pappagallo che si divertiva a tacchinare(scusate il pleonasmo avicolo..), di volta in volta, ora una cicogna, ora una delfina, ora una feroce leonessa. Avevo 8 anni. Prima di allora ero stato solo San Giuseppe, in una bucolica rappresentazione della Natività, vestito da un drappo color di cielo e recando in mano un bastone da pastore, e un sorriso fisso a metà tra estatico ed ebete; le maestre non mi avevano raccomandato altro:"Sorridi sempre, eh!", ed io, da bambino diligente quale sono sempre stato, ho impersonato il semper felix San Giuseppe, con buona pace del corpo docenti e delle mammine cattoliche. Solo che non mi spiegavo perché San Giuseppe dovesse essere così contento. Solo molti anni dopo ho realizzato, con maggior cognizione di causa e variegate esperienze sul campo, che anche da pupetto avevo avuto un bell'intuito.
Da lì, più nulla. Il puer aveva inspiegabilmente abbandonato le scene, lasciando che la polvere si adagiasse indisturbata sui palcoscenici di tutta l'Italia elementare e media inferiore, e per buona parte dell'Italia superiore. Finché un giorno....
...finché un giorno....
...vorreste saperlo, eh? No!
Ma non lo faccio con cattiveria, rispondo di "no" perché non lo so nemmeno io, cosa è successo quel giorno. Tra l'altro, non ricordo che giorno fosse di preciso, ricordo solo che era settembre. Scoprii che, al pianterreno di un vecchio palazzo presso il Porto, un palazzo visto più volte, sfrecciando in motorino, si nascondeva un piccolo teatro che pareva fatto di cartapesta. Le mura di cartone ispessito, un corridoio talmente stretto da procurare angustia, le sedie rivestite di un panno rosso e poroso. E giù, in fondo, il palcoscenico. Ebbi un sussulto. Finalmente avevo ritrovato quello che avevo smarrito, pur senza averlo mai conosciuto sino in fondo.
Una vecchia signora dai capelli biondi e da quel profumo di sapone, così caratteristico delle nostre nonne. Mi infondeva tranquillità e fiducia, anche se, a volte, le sue manie registiche la rendevano esasperante e più molesta di una beghina! Ma chi se ne importava, il gruppo era coeso, tenuto insieme dalla passione per la musica ed il teatro, dalle risate, dalle prove che non si potevano fare perché, con la pioggia e il compito in classe del giorno successivo, andare era proprio impossibile. Ci piaceva quel posto. Ci piaceva l'odore acre delle pareti pitturate a tempera. Ci divertiva il fatto che un fantomatico topo si aggirava tra i camerini. Ci ho anche preso una sbandata per un ragazzo, tra quelle mura; perché si sa, il teatro ti fa innamorare del personaggio, e credi, anche solo un attimo, che quello esista veramente. Che due di picche, ci ho preso! Poi mi sono consolato, pensando che era bello e coglione, perché si sa, l'autoconvincimento è la miglior tecnica per guarire dalle contusioni a forma di cuore!
Insomma. Quella è stata la mia prima, vera scuola. Pochi ruoli che non scorderò mai. Il "poeta maledetto" che declamava la sua ultima creazione; "l'ubriacone" che profferiva messaggi apocalittici ad una masnada di sgualdrine; i monologhi improbabili, tratti dalle introduzioni dei libri; le letture recitative del V Canto dell'Inferno; Bassinet, il "monsieur" più "froufrou" che abbia mai interpretato; Ivan Vasilevic Lomov, il possidente russo di mezza età percorso dalle convulsioni ogni tre per due.
Ora mi sono perfino evoluto. Da quando sono nella Scuola, ho realizzato il più burino dei "mutandari", un prete isterico macchiato da un accento che ha fatto ridere i milanesi(!), un sensuale ballerino di tango, un padre affetto dall'Alzheimer, un cameriere frettoloso, un passeggero del tram, un metallaro di quelli tosti, una checca isterica, un professore scontroso e misogino... e chi più ne ha, più ne metta.
Soltanto, non ho ancora capito una cosa.
Perché faccia tutto questo.
Poi all'improvviso, mi torna in mente.
"Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris,
nescio sed fieri sentio et excrucior."
E' che mi brucia dentro.

domenica 9 dicembre 2007

Interrogativi a pelo dell'acqua

Perché si dice che "gli esami non finiscono mai", e tu pensi: vabbè, ma è solo un detto; e poi ti rendi conto che in realtà è un proverbio?
Perché, di questi tempi, mi sento come un partigiano della meritocrazia, però non posso evitare di pensare anche al mio interesse personale? C'è forse un conflitto d'interessi in tutto questo? Oppure si tratta soltanto di un periodo in cui basta, ho deciso che mi prendo tutto quello che arriva, e poi tornerò ad essere una persona veramente corretta?
"Perché i tramonti son pupazzi da levare"? (occhio ché questa è difficile!)
E perché la donna e il gay devono essere per forza entrambi femmine?
E perché gli eterosessuali devono essere quelli considerati normali, quando tra quelli che conosco io non ce n'è uno veramente sano? [Soprattutto laddove per "norma" s'intendesse una sbarra dinanzi al passaggio a livello della rettitudine. E che cos'è mai la rettitudine?]
E che cos'è la giustizia?
M'insegnarono, un giorno, durante una lezione di filosofia morale(era un pomeriggio particolarmente piovoso di novembre), che la giustizia si definisce a partire da ciò che giustizia non è. Risulta, infatti, molto più semplice dichiarare cosa è ingiusto che trovare la definizione di "giusto". Mi conforta il fatto che anche uno come Aristotele non è riuscito a trovare una risposta. Mica pizza e fichi.
E perché non esiste il contrappasso? Perché ci si sente (1) insoddisfatti, quando si è dato tanto e si è ricevuto meno di quanto ci si aspettasse; (2) colpevoli, quando si è ricevuto assai più di quanto si è dato; (3) invidiosi, quando si verifica ad altri quanto detto al punto (2), mentre al soggetto in questione si propone puntualmente il punto (1)? E perché devono scrivere per forza sui pacchetti delle sigarette che "Il fumo nuoce gravemente alla salute", oppure che "Il fumo provoca il cancro", oppure, udite udite, il ben più perentorio "Il fumo uccide"? Perché, forse che non lo sapevamo già? Forse che avete bisogno di ricordarci che
"Beh siete voi che avete deciso di fumare
quindi sono solo cazzi vostri e noi non c'entriamo niente"
ma forse che non lo sapevamo già?
[...]
Dove si compra la fiducia in se stessi? E quanto costa?
E perché quel giorno Lizzy disse che anche i conigli avrebbero il diritto di essere portati al guinzaglio, al pari dei cani? E perché a Lizzy piacciono le borse? (Non c'entra granché col discorso, ma questo era un interrogativo fondamentale)
Perché abbiamo un così maledetto bisogno di non essere soli?
Perché abbiamo bisogno dell'amicizia? E dell'amore? E amore e amicizia, sono parificabili?
E che cos'è l'amore?
Vi prego, non ditemi che è tutta questione di chimica. Come si può ridurre tutto alla chimica?
Specialmente quando è esistita gente come Catullo, Petrarca, Verlaine, Garcia Lorca...?
Ma soprattutto... perché ci si pone delle domande?
Perché esiste il Papa, e perché bisogna scriverlo con la maiuscola?
E perché non anche il Cane, il Gatto, il Topo, l'Elefante, non manca più nessuno, solo non si vedono I Due Leocorni?
Perché i bambini sono così capaci di umiliare gli adulti?
Perché gli adulti non sono sempre in grado di umiliare al momento giusto, e invece, solo a mente fredda, quando ormai l'alterco è dissipato, riescono ad elaborare Quellafrase, l'unica, la migliore mai pensata, la sola creata ad hoc per smerdare qualcuno? E perché dopo ci si incazza, più rossi d'ira che mai furo deretani di bertuccia?
E perché si dice "verde di rabbia"? Oppure "Ti faccio vedere i sorci verdi"?
Perché siamo destinati ad avere sempre paura di qualcosa?
Perché le gambe fanno sempre "Giacomo-Giacomo" nei momenti importanti, e perché la lingua si fa più impastata di uno gnocco? Perché il cioccolato fa ingrassare?
E perché alla gente viene da ridere quando sente certe parole tipo:
-corbezzoli
-scorreggia
-cacca
...?
Perché...
"Ite domum saturae, venit Hesperus, ite capellae."
Uff. Sempre sul più bello. Beh. Beeeh, beeeeh.
[Il recinto si chiude. La capretta si accoccola su se stessa e s'addormenta, sotto la sua buona stella. Cala il sipario.]

domenica 2 dicembre 2007

In Zona Cesarini Io Parlo Nuovamente

Scrivere dopo così tanto tempo produce in me una stranissima sensazione. Duplice, per di più. Se inizialmente mi rendo conto di trovare una spropositata difficoltà nel raccontare qualcosa, immediatamente dopo subentra un principio di vergogna. Avete presente quando, per molto, troppo tempo, non si sente una persona a noi molto cara? L'istinto è sicuramente quello di cercarla. Ma qualcosa ce l'impedisce: e più passa il tempo, più diventa complicato fare anche solo il minimo sforzo di comporre il numero di telefono di quella persona. Come se ci si vergognasse di essere mancati per così tanto tempo, e non si trovasse il coraggio di giustificarsi, perché, di giustificazioni, non ce n'è.
Con questo blog è così. E' una specie di "amico". E non in senso unilaterale, ma reciproco: io gli ho affidato le mie confessioni, i miei momenti di sconforto, ma anche quelli di gaudio incontenibile. Gli ho offerto le mie lacrime e i miei sorrisi, la noia e l'apprensione, la veemente rabbia di un momento oppure una dedica per qualcuno che amo, ed ancora le mie riflessioni sul mondo che è, sul mondo che è stato e che è in procinto di cambiare, o che sta cambiando. Dall'altra parte ho ricevuto la possibilità di entrare in contatto con altre persone. Come astri che trascorrono nel firmamento, ci siamo incontrati silenziosamente. Le tacite affinità mi hanno smosso sempre qualcosa dentro. Quel senso di condivisione che è proprio dell'essere umano, ecco. E le modalità sono sempre state diverse: una volta era un distico particolarmente evocativo, un'altra era un racconto di un'esperienza o di un pensiero sopraggiunto a chissà quale ora del giorno(o della notte?), un'altra volta era una fotografia in bianco e nero, oppure una melodia di sottofondo che tirava fuori dall'oblio un ricordo da tempo sotterrato.

Quante ne sono passate? Tante, anche troppe, per essere poco più di un mese. Avevo, per una volta, già previsto cos'avrei scritto su queste pagine di cristalli liquidi.

Avrei raccontato del tempo che avrei trascorso insieme a mia madre, che per la prima volta è arrivata sino a Milano per venire a trovarmi, e di come fosse spaesata nella gigantesca Stazione Centrale; e di come quella sua espressione a metà tra lo stralunato e il curioso mi mettesse addosso una sana allegria e mi riempisse di felicità, la felicità di vedere tua madre che ti viene incontro sul binario, trascinandosi dietro qualche piccola leccornia della mia terra dentro una microscopica borsa-frigo. Ma non l'ho fatto.

Avrei raccontato del mio primo anno insieme a L., di tutte le sensazioni che, forse, descrivere non si può, ma che si possono solo provare facendo l'amore in un giorno così speciale, il giorno in cui pensi che, anche a distanza di 12 mesi, nulla è davvero cambiato dalla prima volta, dal primo bacio rubato in un momento di completa ebbrezza e totale inconsapevolezza del "poi". Ma non l'ho fatto.

Avrei raccontato anche del primo anno di vita di questo piccolo spazio che mi sono ritagliato dal mondo reale, per trasferirlo in quello virtuale, e renderlo, per così dire, immune a quella forza che "involve tutte cose l'obblío nella sua notte", per dirla con Foscolo. Ma non l'ho fatto.

Qualcosa vorrà pur dire. Probabilmente l'ho sempre saputo, e l'unica volta che ho cercato di contraddirmi, sono stato mestamente bacchettato col furto in casa che ho subìto, proprio il giorno in cui mia madre si è presentata a Milano. A proposito, avrei voluto raccontare anche questo, e della sensazione di violazione che ho provato e che mi ha fatto capire che, in realtà, io non ho ancora affrontato un vero trauma, perché sono stato capace di rimanere spaventato per giorni, capace di saltare dalla sedia anche per un debole fischio di vento. Ma nemmeno questo ho fatto.

Insomma, una cosa però l'ho capita.

E cioè che nulla c'è di più inutile ed inconsistente che fare programmi a lungo termine. Prima o poi, l'imprevisto arriva, ed io mi attacco al tram.
Creative Commons License
This opera by http://adynaton86.blogspot.com is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.