lunedì 28 maggio 2007

Sfogo n.1, ovvero L'Omosessuale

Notte piena di interrogativi. Ma forse sono solo riflessioni. Sulla doppiezza, sul proprio alter ego. Chi di noi non ne ha uno, in fondo? Pirandello diceva che siamo "uno, nessuno e centomila". Ma certe volte è già abbastanza difficile gestire una duplice identità. Figuriamoci centomila.


"Guardami negli occhi e spogliati da ogni falsità

quell'aura di purezza tradisce diaboliche anomalie

e sai di cosa sto parlando..."


Mi è parso spesso di sentire parole come queste davanti allo specchio. In fondo, dietro la mia immagine riflessa, c'era qualcosa che somigliava vagamente alla mia anima e mi implorava di liberarla. Oppure era solo una consapevolezza più profonda del mio essere?

E' difficile dividersi tra se stessi e il mondo circostante. Gli altri, quelli che ti guardano e ti affibbiano, loro malgrado, un'etichetta che ti piomba improvvisamente tra capo e collo, senza alcuna possibilità di revoca. E così diventa tutto più semplice. O quasi. Perché, in qualche modo, rischi di perdere la tua strada. Quella che più intimamente ti appartiene. Quella che porta dentro di te, e che nessuno può vedere finché non viene mostrata. Talvolta elogiata, altre volte - e più spesso, posso dirlo? - esposta al pubblico ludibrio, schernita, derisa, presa a cazzotti dai benpensanti. E allora, ben consci di questa esemplare crocifissione in società, è alquanto preferibile ridurre il proprio ego in polpette e fare buon viso a cattivo gioco.

E' difficile essere frocio a questo mondo. (Mi permetto di servirmi di questo termine in quanto detentore del titolo a tutti gli effetti). Chi ti dà per malato, chi ti addita come il pazzo del paese. Le beghine, dietro i loro veli neri e luttuosi, gridano allo scandalo, il parroco fa di tutto per riportarti sulla retta via di Gesù Cristo Nostro Signore. I coetanei che ti vedono come una specie di alieno atterrato da chissà quale pianeta remoto. Per carità!

Esiste la possibilità di un quieto vivere, al prezzo tutto sommato onesto di organizzare una grottesca pagliacciata, in cui devi recitare la parte del maschio a tutti i costi, quello che non deve chiedere mai, l'insaziabile purgatore di passere.

Ma si può davvero accettare una vita sommersa dalla menzogna? Si può ammettere un compromesso, in cui a fare la differenza sull'ago della bilancia è il pregiudizio? C'è chi ci riesce, e sono combattuto tra una sentita ammirazione per costoro, e una sorta di infima pietà. Rinunciare a se stessi in nome del proprio nome. O di quello di tua padre e di tua madre, o del tuo posto di lavoro. Perché essere frocio non significa solo avere una predilezione per il cazzo, ma essere anche pedofilo e squilibrato.
Chi ci ha imposto tutto ciò? Perché siamo obbligati a dover nascondere l'amore di un uomo per un uomo, o di una donna per una donna?
Non so con chi prendermela per questo mondo che va alla rovescia. Non ne posso più di dovermi sentire colpevole per essere ciò che sono, e che non ho scelto di essere. Nessuno sceglie di essere omosessuale, così come nessuno sceglie di essere eterosessuale. E non capisco perché, diamine! non riesco a giustificare questa società che, in maniera tendenziosa, scaglia giù dalla sua Rupe Tarpea chi è diverso rispetto alla norma precostituita, all'ordine assolutamente incontrovertibile delle cose.
A volte mi sento stupidamente inferiore rispetto ad una persona eterosessuale. Perché so di non avere diritto a certe cose. Perché so di essere in minoranza, e non c'è nulla di peggio che sentirsi da soli, o quasi, e circondati da una muraglia invalicabile. E finisco col piangermi metaforicamente addosso per una condizione che mi tiene la testa sotto l'acqua e che non mi lascia respirare. Eppure cos'ho meno degli altri? Non mi manca l'intelligenza, né le capacità fisiche, ho carattere e sono spiritoso, ho successo dal punto di vista sessuale, e in più so anche stirare, lavare e cucinare. Roba che la maggioranza dei miei coetanei maschi non vanno oltre una pasta aglio e olio (con tutto il rispetto per la pasta aglia e olio) e non sa distinguere una scopa da una spugna.
Non ne posso più di tutta questa matassa fatta di etica e falsità.
Stasera voglio dire basta a chi ci vuole affamati di bambini, basta a chi ritiene che due persone dello stesso sesso non siano capaci davvero di amare, basta a chi ci crede tutti delle drag-queen, basta a chi ti giudica per come ti vesti, per quello che mangi, per quello che caghi. Basta all'odio e al pregiudizio, basta al potere del papato sulla libertà di espressione, basta all'oscurantismo, basta ai tentennamenti, ai dubbi, ai complessi d'inferiorità, basta. Basta. Basta!

venerdì 18 maggio 2007

Se una notte di maggio un cuoco improvvisato

Sembrava proprio che non dovessi farcela, sai? La farina era proprio agli sgoccioli, così come lo zucchero. Per fortuna, invece, di uova ne avevo tante: del resto lo sai che compro sempre la confezione da dieci per non farmele mai mancare. Erano le due di notte e ho cominciato.
Facciamo mente locale: gli ingredienti ci sono, un pizzico di sale che, come mi ha insegnato mia nonna, non deve mancare mai. Cosa manca? Il burro, certo! Fuso al punto giusto. Ora si può cominciare con l'amalgamare il tutto, e aggiungiamo anche due cucchiai di cacao amaro, così, per dare il colore del cioccolato alla pasta. Un bicchiere di latte, versato lentamente, così... no, più piano! Ecco, sì. Il lievito, e ora una bella rimescolata energica! Il mio braccio si prodiga in uno sforzo sovrumano. Imburriamo la teglia... versiamo l'impasto... e via, lasciamo la torta in forno per tre quarti d'ora a 180°C. Speriamo che il tempo sia sufficiente. Ma... diamine, cos'è quell'orribile fossa nella torta?! Perché si è formato quel maledetto buco, perché?! Accipicchia, dovrò inventarmi qualcosa. Rifarla da capo, proprio non è possibile. E se la torta si tramutasse per magia in una ciambella? Proviamo... un colpo di coltello, scaviamo col cucchiaio... incredibile, sembra fatta volontariamente. Ma questo lo so soltanto io, tu non lo saprai... Non mi va di dirti che ho sbagliato qualcosa proprio mentre preparavo un dolce a sorpresa per il tuo compleanno. Preferisco godermi la vista della faccia che farai quando troverai quella scritta sbilenca sulla superficie spolverata di zucchero a velo, un "auguri" di cioccolato fuso che sembra tracciato da un bambino dalla mano ancora incerta. Ora mancano solo le candeline. Oggi al supermercato le ho cercate, ma c'erano solo pacchetti da ventiquattro. Caspita, per una, che sfortuna! In realtà preferisco quelle con i numeri, non credo di riuscire a mettere sopra questa torta improvvisata venticinque candeline tutte insieme. Stasera, quando torneremo a casa dopo l'aperitivo con tutti gli amici, le accenderò per te e te le farò spegnere mentre esprimi un desiderio. E dopo, mentre mi guarderai senza più fiato, con le guance un poco arrossate, magari io ti sussurrerò nell'orecchio "Ti amo, buon compleanno", per cercare di entrare ancor di più dentro di te, come se potessi farlo con la voce, con le parole, con i miei occhi. Perché da quando sei nella mia vita, da quando quel giorno ho posato le mie labbra ubriache sulle tue, niente è stato più uguale a prima, piano piano ho ricominciato a sognare. E starti accanto mi sembra il più bel sogno che io possa immaginare...

lunedì 7 maggio 2007

Many years had passed...

Ci sono cose che, pur nel corso di una vita, non si riescono a dimenticare. Magari si tratta di grandi eventi. Oppure, per inverso, di avvenimenti di portata minuscola. Qualcosa che potrebbe non lasciare neppure l'ombra nella memoria di chi ha condiviso qualcosa di noi. Eppure, resta viva. Convive con la bruciante sensazione di aver perso qualcosa per strada e di non poterlo recuperare mai più.
Questo giorno ha sempre rappresentato un'occasione speciale. I ricordi si accalcano l'uno sopra l'altro, come strati di terra che seppellisce una città da tempo dimenticata. Ma se provo a scavare, ci sono tesori inestimabili di immagini, emozioni, volti di persone che sono cambiati negli anni e che oggi potrei non riconoscere più. E allora chiudo gli occhi. E ricordo.
Ricordo di quando arrivavano i primi caldi della primavera. Quando, da bambino, non resistevo alla voglia irrefrenabile di scendere giù in cortile con i miei amici. E si giocava a "lampadina fulminante", o al pallone, mentre i nostri genitori restavano a guardarci a debita distanza, chiacchierando di cose che a noialtri, piccoli e spensierati, non interessavano. Riuscivamo a non preoccuparci di nulla, a dipingere con i nostri allegri schiamazzi quei casermoni di cemento armato totalmente anonimi. Ma c'era la vita di maggio che brillava sulle nostre fronti imperlate di sudore, e le nostre risate. Ed io ancora credevo di essere nato nel mese in cui sbocciano le rose.
Dentro di me cresceva, incontenibile, l'ansia spasmodica per un'attesa che mi pareva lunghissima. Cominciavo il conto alla rovescia dal giorno del compleanno della mia compagna di giochi, F., di due settimane esatte più grande di me. Così avrei saputo, magicamente, che anch'io avrei compiuto gli anni di sabato. O di mercoledì. Ma che importanza aveva? Vivevo quelle due settimane fuor della mia pelle. Preparavo gli inviti per la festa che avrebbe avuto luogo nella sala condominiale. Coloratissimi, volevo che fossero i più belli di tutti, e non permettevo a nessuno di aiutarmi a realizzarli. E organizzavo i giochi che avremmo fatto, e sceglievo la torta con la panna e le fragole, che mia nonna puntualmente mi faceva trovare sulla tavola della cucina il giorno prima.
Ripenso a tutto questo e mi domando cosa ne è stato di quel bambino cui brillavano gli occhi nel giorno del suo compleanno. Con gli anni ho perso l'interesse per i festeggiamenti. Crescendo, ogni sette di maggio diventava sempre più strano ed io sempre più insofferente. Più volte ho desiderato che, come per miracolo, questo giorno scomparisse dal calendario. E il tempo si è messo a correre improvvisamente, e mi sembrava che il mio compleanno cadesse non più una, ma due, tre, quattro volte l'anno. Ed io mi chiedevo come fosse possibile che le cose che desideravo di meno arrivassero sempre più rapidamente di quanto mi aspettassi.
Oggi i miei anni diventano ventuno. Ma cadono in un momento molto particolare della mia vita. Qualcosa si sta svelando sotto i miei occhi, anche se la visuale non è del tutto nitida. Ma è come se mi aspettassi da un momento all'altro una sorpresa di ignota natura. Però intanto, forse con buona pace di me stesso, ho messo da parte l'astio verso questa giornata che ogni anno diventa un'incognita. Non c'è stabilità, ma solo girandole di parole e di persone che oggi ci sono, e domani forse non ci saranno. E in questa volatilità di cose, case, luoghi, persone, accadimenti, io rimango da solo con la mia sigaretta, ma in quiete. E brindo a me, alle mie emozioni vive, brindo ai miei ricordi, bevo alla memoria di quel bambino che era felice di essere nato con le rose, e che, in momenti sporadici ed inaspettati, mi rivolge uno sguardo benevolo e mi tende la mano. Ed io non posso fare a meno di sorridergli con un briciolo di serena nostalgia...

martedì 1 maggio 2007

Il Giglio Che Non Sfiorisce Mai

Banale. Oserei dire scontata. E pomposa, anche. Tanto sfarzo in pochi chilometri quadrati. Ricchezza di architetture, statue scolpite a regola d'arte, situate sotto regali porticati. Rigogliosi giardini all'italiana. E la storia dei poeti che non riuscivano a rimanere indifferenti di fronte al suo fascino. Il punto di riferimento di un'intera epoca culturale, nel punto in cui le vallate dell'Appennino concedono una tregua alle fatiche dei mandriani di pecore di tempi ormai remoti. Il trascorrere del tempo che trascina via tutto, nell'ottica di un oblio inesorabile ed invadente, che divora ogni cosa, strade, vite, palazzi, intrighi, vicende. Il vento e le scorribande che saccheggiavano intarsi e mercati. Eppure Firenze è ancora lì. Immota, sospesa nel tempo e nello spazio, lontana dalla dimenticanza, viva nella storia. Ogni volta che ci torno mi si schiude una porta che mi conduce verso secoli passati, che riecheggiano nella poesia, nell'arte, nella letteratura. C'è chi dice che Firenze sia morta da tempo, senza possibilità di resurrezione, senza che qualcuno possa salvarla. Che bestialità, penso dentro di me, mentre attraverso la brulicante Piazza della Signoria, mentre passeggio per il corridoio degli Uffizi, mentre mi riparo dal sole battente, all'ombra di Santa Croce. L'acqua dell'Arno continua imperterrita a scorrere sotto il Ponte Vecchio, reso dorato dalla gloria del passato e dai gioielli scintillanti esposti nelle vetrine. Ed io rimango rapito a guardare il fiume scorrere sotto di me, lento e placido verso il Mar Tirreno. Non posso che constatare che Firenze è parte di me, anche se non esiste alcun legame che ci tenga uniti in modo viscerale. C'è dentro la mia conoscenza, l'intimo credo che la letteratura sia immortale quanto la sabbia del deserto.
Che strana sensazione, sapere di calpestare lo stesso selciato su cui sono passati i più grandi geni delle province italiche. Quando l'Italia s'è risvegliata, ha scelto di farlo a Firenze. Tra i palazzi della famiglia de' Medici. E non si è più addormentata. Mentre io continuo a sognare di me stesso, trasposto in centinaia di anni prima. La bellezza di Firenze mi sconvolge, mi spaventa, mi attrae, mi deprime in certi momenti perché temo di non riuscire a sopportarla, a contenerla tutta. Entra dentro di me come una musica brutale, come se fossi sotto un'enorme campana di bronzo che rintocca a ritmo regolare. Ed io resto in impotente contemplazione. Come si può vivere in mezzo a tanta meraviglia? Come si fa a non restare inermi, a "fare l'abitudine" con tutto questo splendore che non sarà mai dimenticato? Come si può accettare l'idea di essere una fibra dello spazio che sarà presto marcita, mentre ci si confronta con la magia di una città che continua a gridare al mondo: "Sono viva"? Avrei voluto che un velo di dimenticanza avesse coperto i miei occhi, come era già successo altre volte, quando sul treno di ritorno continuavo a pensare alle cupole, ai campanili, al bellosguardo, a quel giglio che non sfiorisce mai. Ma l'immagine era e resta vivida, corrusca nel suo oro indistruttibile. E questa volta non riuscirò a dimenticarla.
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