domenica 15 marzo 2009

L'ultima chicane

C'è chi guarda il mondo seduto su un marciapiede, in una notte vuota di luna e stelle, in cui le auto hanno dimenticato di accendere i fari eppure continuano a scivolare sull'asfalto delle strade. E come quello che è seduto, ti ritrovi con la schiena poggiata su una fredda saracinesca annerita dal tempo e non vedi veramente, ma percepisci il movimento solerte e rumoroso di quelle ruote che macinano e schiacciano sassolini come olive nel frantoio. Poi ti accorgi che non sono le auto, e il marciapiede non esiste e il buio è solo quello della tua stanza che sembra accogliente per gli altri per sua stessa natura; così, immerso in questo boudoir denso di fumo caldo e sensazioni, le voci degli altri volteggiano ovattate nelle tue orecchie, eco lontane di discorsi poco interessanti eppure restii a tacere.
Sento l'odore dell'ultima curva di un circuito intrapreso tre anni e mezzo fa, quando un ragazzino diciannovenne ed ebbro di curiosità si inoltrava sotto volte a botte e a crociera, scolpite da mani sapienti già secoli fa, o per i chiostri immacolati, resi bizantineggianti da una luce di ottone, il sole dell'ultimo settembre: lo scalpiccio delle mie scarpe dalle suole di gomma, la gamba del jeans che strisciava nel cortile, il peso esatto di una borsa a tracolla patchwork, una kefiah avvolta intorno al collo forse per sembrare un po' più di sinistra. Guardo la scena e il sottofondo discreto è quello di un carillon che suonava il "Bolero" di Ravel. Guardo da fuori e riconosco me stesso agli albori di un percorso che si sarebbe rivelato tremendamente tortuoso di lì a qualche mese, con poche pianure e fitti tornanti ghiaiosi, infidi. 
A volte mi sento come Orfeo per questa mia ingrata tendenza a voltarmi all'indietro, e come lui sono risucchiato da immagini che mi fanno dimenticare che la mia strada è davanti a me, e con lei la luce, la fine di una foresta che forse è piuttosto un giardino botanico che io stesso ho coltivato, con paziente e sadica convinzione. La patetica visione di obliate memorie giovanili mi stordisce come i gigli in una chiesa ubriacano la sposa anemica, e mi ritrovo a constatare che sì, quello è passato, e davanti a me ho ancora nuove porte da sfondare, e dentro di me nuove stanze da aprire, rinfrescare, preparare per il nuovo e ignoto ospite. 
Avrei voluto essere più sereno, avrei voluto prendere la vita con maggior leggerezza, far soffrire meno persone di quelle che ho straziato, farne soffrire di più di quelle che ho invece risparmiato. Mi concedo ancora qualche minuto al tiepido sole di marzo, solo. Il posto accanto a me ha ancora impressa la placida forma di un corpo umano sopra i fili d'erba; ma il battito cardiaco rumoreggia nel petto e presagisce lo scoppio, io vorrei smantellare ogni costruzione, abbattere ogni casa, distruggere ogni oggetto, strappare le pagine di un lavoro che mi è costato un anno di ricerche per il solo gusto di vedere pezzi della mia vita consumarsi lentamente in cenere e fiamme. Poi mi fermo lì. Resto in piedi davanti al film delle mie iniquità e spengo con un gesto fulmineo, isterico, lo schermo. E ancora, e ancora, e ancora, invano, perché quello continua a scorrere, e vedo l'incendio propagarsi senza più il sonoro, ma sempre tremulo, palpitante. 
Tra quattro giorni io mi laureo, e il cuore mi fa malissimo.
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